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Così la Ricerca lotta contro l’AIDS

20/04/2010

Un’analisi di Alberto Mantovani e Domenico Mavilio sul ruolo della ricerca nella lotta all’Aids.

Il virus dell’immunodeficienza umana di tipo 1, HIV-1, identificato nel 1983, è certamente il più noto e studiato patogeno nella storia della medicina. Tuttavia, più di tre decadi di ricerca non sono bastate per sviluppare terapie definitive e vaccini efficaci, e ancora oggi i meccanismi che permettono al virus di indurre un’inevitabile immunodeficienza sono in larga parte sconosciuti. A tal riguardo, la capacità del virus HIV-1 di evadere la risposta immunitaria dell’ospite e di radicarsi permanentemente all’interno di “serbatoi” cellulari rappresentano tuttora gli aspetti patogenetici più importanti da risolvere. Questi fenomeni non sono in realtà esclusivi dell’infezione da HIV-1 poiché anche altri virus persistenti nel nostro organismo (virus erpetici o epatici) hanno sviluppato simili meccanismi.
La peculiarità fisiopatologica che ha contraddistinto l’infezione da HIV-1 sin dall’inizio della pandemia è la progressiva perdita dei linfociti T CD4+ che fisiologicamente rappresentano il cardine su cui si basa una corretta omeostasi immunitaria. Più recentemente, si è evidenziato un secondo e altrettanto importante elemento caratteristico dell’infezione da HIV-1: l’associazione tra la viremia plasmatica e l’instaurarsi di processi infiammatori che attivano in modo anomalo e aberrante il sistema immunitario sin dalle prime fasi dell’infezione.

La maggiore tendenza delle cellule immunitarie a proliferare, l’incremento dei fenomeni apoptotici (specialmente a carico dei linfociti T CD4 +), gli alti livelli di produzione di citochine e chemochine pro-infiammatorie (TNF-!, IL-6, IL1-“, MIP1-!, MIP1-“, RANTES, etc), l’espansione di popolazioni linfocitarie anomale sono solo alcuni dei fenomeni legati all’attivazione paradossa del sistema immunitario in risposta ad alti livelli di viremia plasmatica. La stimolazione antigenica diretta da parte del virus rappresenta un potente insulto infiammatorio che attiva le cellule del sistema
immunitario innato e adattativo sin dalle prime fasi di malattia. In seguito, la cronica e costante persistenza di replicazione virale (anche con bassi livelli di copie circolanti) si ripercuote negativamente sulla stessa capacità da parte delle cellule del sistema immunitario di rispondere in modo ottimale a nuovi stimoli infiammatori.
Questo esaurimento della riserva funzionale dei linfociti si associa a una limitata capacità rigenerativa delle cellule immunitarie che, di conseguenza, riducono in modo marcato la capacità di esercitare un’immunosorveglianza efficace contro patogeni e tumori opportunisti. Pertanto, la cronicizzazione della replicazione virale innesca un ciclo vizioso in cui l’attivazione persistente del sistema immunitario induce una senescenza delle stesse cellule immuno-competenti che si ripercuote in modo negativo sulla prognosi dell’infezione.

La replicazione virale cronica non può, però, giustificare da sola un’attivazione così “devastante” del sistema immunitario, ed è verosimile pensare che diversi altri fattori intervengano in questo processo. A tal riguardo, diversi studi hanno evidenziato che molteplici molecole e/o proteine virali sono in grado di interagire con recettori di membrana diversi dal noto CD4 e dai recettori per le chemochine CCR5 e CXCR4. Queste interazioni tra HIV-1 e recettori “alternativi” sulle cellule immunitarie inducono un’attivazione indiretta del sistema immunitario senza che ci sia un’azione diretta del virus o un’infezione produttiva delle cellule stesse.
Ad esempio, si è dimostrato che la glicoproteina virale gp120 si lega a molecole di tipo lectinico o integrinico presenti sulla superficie di molte cellule
immunitarie. Questi legami alterano in modo patologico molteplici funzioni immunitarie, senza che si sviluppi una risposta anticorpale o cellulo-mediata specifica contro HIV-1. L’immunodeficienza indotta da HIV-1 è, inoltre, in grado di “risvegliare” altri virus latenti del nostro organismo come il Citomegalovirus e il Virus di Epstein Barr. La riattivazione di questi patogeni opportunisti e la stimolazione antigenica cronica sulle cellule del sistema immunitario contribuisce in modo rilevante ad aumentare l’infiammazione e a debilitare ulteriormente le difese immunitarie. Molteplici evidenze sperimentali e cliniche hanno dimostrato che un corretto assetto immunitario è essenziale per l’integrità della barriera mucosale dell’intestino e per l’equilibrio microbiologico della flora commensale.

La deplezione massiva di linfociti T CD4+, di cellule dendritiche e di monociti sin dalle prime fasi dell’infezione comporta la traslocazione della microflora dal lume intestinale verso la lamina propria ed i linfonodi mesenterici. In queste sedi, la stimolazione antigenica dei patogeni della flora intestinale induce un’attivazione di macrofagi e cellule dendritiche che, a loro volta, rispondono con un’aumentata secrezione di un’ampia gamma di citochine proinfiammatorie.
Il risultato finale di questo processo è l’instaurarsi di uno stato infiammatorio cronico che attiva in modo paradosso il sistema immunitario. L’infiammazione persistente indotta da HIV-1 altera le funzioni di molte cellule che compongono il network del sistema immunitario e si ripercuote sul decorso clinico della malattia. La comprensione degli aspetti virologici e molecolari in grado di indurre questo stato di attivazione patologica dell’immunità innata e adattativa è, pertanto, fondamentale per identificare i meccanismi che permettono al virus di debilitare il nostro sistema immunitario sino al punto di consentire che malattie opportunistiche diventino un serio pericolo
per la sopravvivenza del paziente. La ricerca in tal senso è anche indispensabile per sviluppare nuove ed efficaci strategie vacciniche e/o terapie risolutive.

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