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Un bavaglio ai tumori

26/08/2004

Dopo anni di fortune alterne, l’approccio secondo il quale per combattere il cancro è necessario impedire la formazione dei vasi sanguigni da cui esso trae nutrimento (fonomeno noto come angiogenesi) potrebbe finalmente trovare la sua giusta collocazione, e cioè quella di un valido complemento alle chemioterapie tradizionali, in grado di potenziarne l’effetto, pur non essendo di per sé sufficiente a stroncare la malattia.

In questa direzione vanno alcuni dei risultati appena resi noti al congresso annuale dell’American Society for Cancer Research (ASCO) e i dati riportati in uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine, che ha valutato l’efficacia del primo farmaco antiangiogenesi approvato dalla Food and Drug statunitense, l’anticorpo monoclonale bevacizumab (nome commerciale: avastin), diretto contro un recettore del fattore di crescita specifico dei vasi, il VEGF. Uno studio analogo, cui ha partecipato la Divisione di oncologia medica di Humanitas, sarà pubblicato nelle prossime settimane e sarà oggetto della seconda puntata dedicata a queste nuove e affascinanti molecole anticancro.
Nel lavoro appena uscito, invece, un team di oncologi di diversi istituti statunitensi ha selezionato più di 800 malati di tumore del colon metastatico e li ha assegnati a ricevere la terapia standard, composta da irinotecan, 5 fluorouracile e acido folinico, oppure la stessa con l’aggiunta del bevacizumab. Gli esperti sono poi andati a valutare la sopravvivenza globale dei malati, e hanno dimostrato che nel gruppo cui era stato somministrato l’anticorpo essa stata significativamente più alta, passando da 15,6 a 20,3 mesi. Migliorati anche la risposta obiettiva, dal 34 al 44 per cento, e il periodo libero da malattia, da 6 a 10 mesi.

Armando Santoro, direttore dell’Unità operativa di oncologia medica di Humanitas, anch’egli coinvolto in studi clinici su questo tipo di molecole, spiega quali sono i meccanismi più probabili attaverso i quali l’inibizione dell’angiogenesi si traduce in un rallentamento della proliferazione tumorale: “Oltre al fatto, già molto importante, di impedire alla massa di ricevere il nutrimento necessario per vivere, con ogni probabilità la mancanza di irrorazione sanguigna rende le cellule neoplastiche meno compatte e più facili da penetrare da parte dei chemioterapici classici: ciò spieghrebbe perché il bevacizumab potenzia l’azione degli antitumorali tradizionali. Molti punti, comunque, restano da chiarire per quanto riguarda i dettagli molecolari”. A parte ciò, ricorda Santoro, il farmaco, come gli altri della categoria, è assai ben tollerato e non sembra indurre resistenza se non in piccole percentuali di pazienti. “Tutti questi elementi fanno degli anticorpi monoclonali ottimi candidati al ruolo di terapie complementari a quelle in uso” conclude Santoro “ma resta un problema davvero non di poco conto: quello dei costi”. E’ stato calcolato che un ciclo di cure di 40 settimane per un soggetto di 80 chili può arrivare a costare 50.000 euro. Con le indicazioni attuali dell’FDA, molto ampie, l’anticorpo potrebbe essere prescritto a migliaia pazienti, con una spesa annuale media non inferiore al miliardo e mezzo di dollari solo negli Stati Uniti.

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