Stai leggendo Gronda: un paziente su tre non ha bisogno del trapianto

Tecnologia

Gronda: un paziente su tre non ha bisogno del trapianto

04/12/2001

Sono numerosissime le persone in attesa di trapianto cardiaco e le liste di attesa sempre più lunghe. Ma il trapianto cardiaco può non essere l’unica soluzione . La ricerca medica e la tecnologia hanno messo a punto farmaci e macchine in grado di offrire nuove soluzioni terapeutiche per pazienti. Quali sono le cure più recenti?Quali sono i pro e i contro? La parola al dott. Edoardo Gronda, cardiologo.

Molte persone muoiono in attesa di trapianto. Perchè ci sono liste d’attesa così lunghe? Ciò è dovuto alla carenza di cuori da trapiantare o da non perfetta organizzazione degli ospedali?
“La cardiologia ha fatto progressi impensabili nel campo delle terapie farmacologiche utilizzate come integrazione delle terapie chirurgiche ed interventistiche. Così sono state trattate con buoni risultati molte malattie ritenute non curabili con le terapie tradizionali. Allo steso tempo è cresciuto il numero delle persone affette da malattie cardiache anche molto gravi. Per questo motivo le indicazioni per il trapianto cardiaco sono da rivedere alla luce di questi nuovi dati epidemiologici. I centri di trapianto preferiscono mettere in lista d’attesa anche queste persone per garantire al malato una rete di sicurezza, ma in questo modo si aumenta la lista. Circa il 38 per cento dei pazienti in lista d’attesa che non sono stati sottoposti a trapianto sono vivi dopo 3 anni dall’iscrizione. Questo dato significa che più di un paziente su tre non ha davvero bisogno del trapianto e che potrebbe essere curato efficacemente con altre terapie cardiologiche o cardiochirurgiche”.

E’ migliorata la cultura della donazione in Italia?
“Sicuramente sì. C’è più sensibilità e maturità verso questo atto che fino a qualche anno fa era ancora visto come cruento e magico. La donazione è da considerare come l’avvio dell’atto terapeutico più efficace quando il malato ha esaurito ogni tipo di risposta alle terapie tradizionali”.

Quali sono le terapie che danno buoni risultati in alternativa al trapianto?
“L’uso combinato di cure interventistiche e farmacologiche è in grado di modificare in positivo la prognosi di molti di questi malati. Un esempio? La stimolazione o i pace-maker in grado di provocare la risincronizzazione dell’attività elettromeccanica del cuore. Inoltre, l’impiego dei farmaci cosiddetti beta bloccanti ha permesso di ridurre del 35% la mortalità nei soggetti con insufficienza cardiaca avanzata. Anche l’introduzione di sistemi meccanici di supporto al circolo, cioè i ventricoli artificiali e i cuori artificiali, consentono ai malati, selezionati in modo appropriato, di avere una sostituzione della funzione cardiaca quasi completa. Ossia di poter riprendere grazie a questi presidi impiantati una vita simile alla norma e a casa, sia in attesa del trapianto, sia come alternativa. Un importante studio americano, “Rematch”, ha documentato che i pazienti estremamente gravi, senza il presidio della pompa di supporto al circolo impiantata, muoiono entro 18/24 mesi, mentre hanno sopravvivenza favorevole grazie alla pompa impiantata. Il ventricolo artificiale è un delicato e complesso strumento di supporto al circolo (ossia alla circolazione sanguigna) che viene utilizzato dal 1996 nella sua versione ad energia elettrica. L’applicazione di questa pompa ha dato risultati di inequivocabile superiorità rispetto alla terapia medica nei malati con insufficienza cardiaca terminale, nonostante alcune limitazioni di tipo progettuale e operativo insite nel modello adottato per lo studio.
In seguito sono state apportate diverse modifiche che hanno migliorato l’affidabilità dello strumento e la capacità di efficace impiego a lungo termine. Va inoltre considerato che la mortalità chirurgica che era molto alta a causa dell’inesperienza dei centri, oggi è diventata assai più bassa proprio in seguito al completamento della curva di apprendimento degli ospedali ed ad una più precisa scelta di come e quando va impiantata la pompa. Già adesso la Federal Drug Administration consiglia questo presidio al posto della terapia medica a pazienti che hanno un immediato bisogno di un cuore nuovo”.

Il tallone di Achille di questi cuori è il cosiddetto cavo che fuoriesce dalla parete addominale del paziente per connettersi alle pile esterne di alimentazione?
“I punti deboli sono essenzialmente due. Il primo è sicuramente rappresentato da questo cavo che fuoriesce dalla parete addominale e che collega la pompa alle batterie di alimentazione. Questo cavo offre un tragitto tra l’ambiente esterno e l’ambiente all’interno dell’organismo del paziente, pertanto può essere foriero di eventi infettivi. Infatti, una delle complicazioni maggiori è rappresentata dall’infezione. Ad oggi il cavo è stato già modificato e i miglioramenti sono la dimensione ridotta a quasi la metà e la maggiore flessibilità. Entrambi questi provvedimenti comportano una minore trazione sul punto di uscita, migliorando notevolmente la tollerabilità dell’impianto ed il rischio d’infezione.
L’altro punto debole riguarda l’affidabilità della pompa che aveva alcune limitazioni, sia nel sistema meccanico di pulsione dell’apparato, sia nella tenuta delle valvole. Alcune modifiche apportate oggi la rendono completamente affidabile oltre i 2 anni di funzionamento continuo.
Dunque,gli elementi che sono stati le due maggiori cause di insuccesso nei pazienti inclusi nello studio Rematch, sono oggi emendate, mentre per quanto riguarda l’insuccesso chirurgico questo si è ormai nettamente ridotto per l’acquisizione dell’esperienza nei centri operanti. Quindi siamo in prospettiva di fronte ad una potenziale maggiore efficacia dell’impianto di questo ventricolo artificiale che già aveva comunque documentato nei casi selezionati la sua superiorità terapeutica rispetto ai farmaci”.

Il Lion heart, utilizzato a Pavia, di cui si è molto parlato, è senza cavo: rappresenta davvero un passo in avanti?
“Per quanto riguarda il sistema di alimentazione sì. Infatti, eliminando il cavo si evita il problema del tragitto esterno e quindi dell’infezione. Il Lion heart, però, è una pompa concettualmente vecchia, cioè superata dal punto di vista dell’adattabilità biologica al paziente dall’Heart Mate”.

Cosa ne pensa di Abiocor, il cuore totale?
“Pensiamo che il cuore totale, se non in casi estremi, debba essere preso in considerazione. E’ ancora in una fase sperimentale. Il maggior difetto consiste nell’aumento notevole delle superfici che devono essere biocompatibili a contatto con il sangue. Per questo motivo è uno strumento potenzialmente molto emboligeno, inoltre può essere sede di infezione molto più facilmente che non le pompe cosiddette sequenziali al ventricolo. Tuttavia non escludiamo di poterlo utilizzare in futuro, oggi non è ancora sufficientemente testato.

Quali sono gli studi più interessanti e le ricerche in corso negli Stati Uniti?
Lo studio di cui parlavo prima che viene chiamato come il Rematch 2 dovrebbe rappresentare il superamento di una nuovo traguardo con un guadagno di sopravvivenza e di qualità di vita molto consistente rispetto alle cure sin qui disponibili. L’obiettivo è quello di garantire a questi malati una vita a tempo indeterminato con la pompa nuova. Vi è, inoltre, un altro studio promosso dalla Novacor che prefigura l’utilizzo di un altro tipo di pompa simile all’Heart-Mate, come alternativa al trapianto.

Questo per quanto riguarda le pompe, ma invece per quanto riguarda la cardiologia nel suo complesso?
I progressi maggiori per il trattamento dell’insufficienza cardiaca sono rappresentati dall’estensione dell’utilizzo di device di resincronizzazione dell’attività. Riguardo la farmacologia vi è un sempre più un stretto contatto tra l’evoluzione delle malattie cardiache e della patologia renale. Humanitas sta valutando un programma di gestione della patologia globale, in cui il malato dovrà essere guardato nel suo insieme metabolico, cardiaco e renale. Infine, eseguire rivascolarizzazione con stent medicati che dovrebbero garantire la pervietà a lungo termine dell’arteria coronaria trattata evitando la restenosi grazie a farmaci anti-ploliferativi, già usati in campo oncologico e come immunosoppressori che possiedono la proprietà di limitare la risposta proliferativa della parete vascolare che comporta la riocclusione del vaso e la necessità di reintervento.

Quali sono gli strascichi del caso Lipobay? E’ cambiato il comportamento dei pazienti?
C’è maggiore attenzione da parte dei medici nell’informare i pazienti riguardo alle statine. Si è attenuato il senso di allarme dovuto a una campagna di stampa un po’ insistente che aveva criticato aspetti negativi che pur se presenti andavano contemperati coi benefici indiscutibili che questa terapia offre in una larga parte della popolazione a rischio.

A cura di Lucia Giaculli

Articoli che potrebbero interessarti

Non perderti i nostri consigli sulla tua salute

Registrati per la newsletter settimanale di Humanitas Salute e ricevi aggiornamenti su prevenzione, nutrizione, lifestyle e consigli per migliorare il tuo stile di vita