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Stent medicati: un beneficio o un rischio?

24/03/2006

Gli stent medicati utilizzati per riaprire i vasi ostruiti dalle placche aterosclerotiche continuano ad agire per diversi anni dopo l’inserimento, e questa durata d’azione ha aspetti molto positivi ma può comportare anche alcuni rischi. A questa conclusione sono giunti gli esperti dell’Erasmus Medical Center di Rotterdam, in Olanda, che hanno appena pubblicato sul Journal of the American College of Cardiology uno dei primi studi effettuati con lo scopo di verificare che cosa succeda nel vaso che ospita lo stent alcuni anni dopo l’intervento.
A tal fine hanno controllato, tramite gli ultrasuoni, la situazione in 23 pazienti cui era stato inserito uno stent ricoperto di sirolimus, una delle sostanze più usate in questi casi. Dopo quattro anni è emerso che, per quanto riguarda le placche aterosclerotiche, nei primi due anni non si ha una variazione significativa del loro volume, mentre nel periodo compreso tra i due e i quattro anni successivi all’intervento si registra una netta diminuzione del volume. Al contrario, il tessuto endoteliale nuovo, originato dai processi di cicatrizzazione che si innescano nel momento dell’inserimento dello stent, cresce in modo continuativo nei quattro anni oggetto dello studio olandese, e la crescita è visibile soprattutto nel primo biennio. Le caratteristiche ecografiche, inoltre, suggeriscono che si tratti di tessuto cicatriziale, fibroso, come atteso nel caso di cellule nate per riparare la lesione inferta dall’intervento per il posizionamento dello stent. La dott.ssa Patrizia Presbitero, responsabile dell’Unità Operativa di Emodinamica, Cardiologia Invasiva e Unità di Cura Coronarica di Humanitas, sottolinea così l’importanza dello studio: “Quello degli effetti sul lungo termine è il principale punto di domanda su questi dispositivi, che pure hanno rappresentato un notevole passo in avanti rispetto agli stent classici. La maggior parte degli studi condotti finora, infatti, è stata incentrata sugli effetti a un anno, che sono senz’altro positivi. Ma la permanenza nell’organismo dei farmaci usati per ricoprire gli stent per lunghi periodi potrebbe avere conseguenze che vanno tenute in considerazione, e la risposta definitiva può venire solo da studi come questo”.

L’importanza degli stent
Ma che cosa sono esattamente gli stent medicati e perché si teme che possano essere pericolosi? “Gli stent – risponde la dott.ssa Presbitero – sono dispositivi costiuiti da una reticella metallica, inseriti per mantenere aperto un vaso (molto spesso una coronaria) che è stato occluso da una placca aterosclerotica. Per molti anni sono stati usate reticelle senza alcun farmaco su di esse, che però esponevano il malato al rischio di ricaduta: nel tempo infatti, in un caso su tre si formava tessuto cicatriziale che portava a una nuova chiusura (ristenosi). Si è quindi iniziato a pensare di limitare la crescita di tessuto con sostanze specifiche. Si è così giunti a stent ricoperti con farmaci antitumorali o antirigetto come il taxolo o il sirolimus e i suoi derivati, che hanno portato il tasso di ristenosi dal 30% al 15% e in certi casi anche al 10%. Ma anche questo accorgimento non è esente da rischi, che potrebbero essere anche maggiori della stessa ristenosi”.
L’esperta si riferisce al fatto che i farmaci impediscono la ricrescita di cellule endoteliali, ma anche quella dei tessuti necessari alla rigenerazione del vaso, che rimane perciò esposto. Questo può comportare un grave rischio, perché sulle zone esposte si possono formare dei trombi (coaguli di sangue), soprattutto se la terapia anticoagulante, che di solito accompagna l’inserimento di uno stent per qualche mese, è stata sospesa. “La trombosi – spiega Presbitero – è un evento improvviso, molto grave, che può essere anche mortale, mentre la ristenosi in genere viene scoperta per tempo, dà sintomi e può essere curata. Per questo è importante sapere che cosa succede anche dopo tre, quattro anni: per ora ci sono pochi dati, ma l’esperienza comune di chi come noi mette stent ogni giorno dimostra che il rischio di trombosi è reale anche se raro”.
In attesa che ci siano dati definitivi sul lungo periodo e su grandi popolazioni di pazienti, la ricerca si sta già muovendo, per verificare se l’associazione delle sostanze antitumorali e antirigetto usate oggi con altre (per esempio anticoagulanti o antinfiammatorie) possa portare a eliminare del tutto e contemporaneamente il rischio trombi e di ristenosi.

Nella foto, uno stent coronarico.

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