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Alimentazione

Natale, festa ‘grassa’

29/11/2005

Natale a tavola: tempo di sapori, di specialità gustose. Nel menu moderno delle feste c’è davvero l’imbarazzo della scelta fra arrosti e contorni, piatti unici o a base di pasta; i dolci, soprattutto le specialità regionali, non temono la sfida con i regimi dietetici e ‘la fanno da padroni’ sempre, anche se nelle versioni light. Rimane in una nicchia il pesce, gradito in elaborazioni fantasiose, ma riservato per consuetudine al periodo quaresimale.
Sfogliando i giornali di cucina vengono proposte ricette sfiziose con ingredienti molto semplici e facilmente reperibili: polenta, funghi, torte con ripieni di erbe, castagne. Ma quello che oggi per noi è un momento di ‘abilità festaiola’, com’era nel passato, ad esempio nel Medio Evo? La festa, in un regime che per secoli è stato di fame o carenza alimentare, almeno per la stragrande maggioranza della popolazione, era sì il momento raro nell’anno in cui poter sfuggire ad una dieta monotona e povera, ma il suo ‘vero’ sapore era più che altro liturgico, spirituale.

La carne e le sue proprietà nutrizionali
Pensiamo a quello che era, nel Medio Evo, il desco comune. Che necessariamente teneva conto della lotta continua contro il freddo, nelle capanne come nei castelli, che portava a soddisfare di continuo l’esigenza di calore. Per il popolo e il comune – come lo chiama il maestro Artusi -, invece, molta acqua e verdure (rape e cavoli), un battuto di lardo, cipolle o aglio, condite con il preziosissimo sale. Con carne salata di porco, qualche osso e pane raffermo: ecco il pasto principale, una zuppa.
La carne era cacciata di frodo nel territorio del feudatario, a proprio rischio e pericolo; attingendo dal bosco funghi, frutta e radici, castagne, ci si ingegnava alla meglio per avere un pasto più sostanzioso accompagnato da pane scuro e duro e da vino di pessima qualità.
Le tavole dei ricchi, invece, erano sempre imbandite, soprattutto per le feste. Gli ingredienti? Carne di capriolo, cervo e selvaggina grossa, accompagnata da salse aromatiche e da un abbondante uso di spezie; vino di prima scelta, pane e anche frutta secca. Per il periodo natalizio il bue, se troppo vecchio per essere impiegato nei campi, veniva messo all’ingrasso e macellato, ed era gran festa con il bollito servito in abbondanza e il brodo adoperato in quantità!
Spiega Manuela Pastore, dietista di Humanitas: “La carne bianca (vitello, agnello, capretto, pollo, tacchino, coniglio), rossa tipica del manzo adulto, e nera della selvaggina forniscono elevati apporti di proteine ad alto valore biologico. Vengono definite ‘proteine nobili’, in quanto contengono tutti gli aminoacidi (costituenti appunto delle proteine) ‘essenziali’: il nostro organismo non può costruirsele da solo ma li deve introdurre con la dieta.
Inoltre le carni contribuiscono a soddisfare il fabbisogno di vitamine (in particolare del gruppo B e la vitamina PP) e sali minerali quali potassio, sodio, magnesio e soprattutto ferro emico altamente assorbibile. L’apporto energetico dipende dalla quantità di grasso, e varia dalle 90 kcal per 100 g del vitello magro alle 380 kcal per 100 g dell’agnello grasso o dei tagli più grassi del maiale o dell’oca”.

La pasta, che passione!
E la pasta, che oggi rappresenta il più frequente ed abituale alimento della nostra tavola? Nel Medioevo era una vera golosità, tanto che era prescritto di non esagerare con “lazanie, corzeti, tagliarini”. Abbiamo trovato questa indicazione da una citazione che si riferisce ad una raccolta di consigli medici, Medicinalia quam plurima, conservata presso la Biblioteca Universitaria di Genova.
“Oggi – prosegue Manuela Pastore – la denominazione ‘pasta’ è per legge attribuita solo ai prodotti ottenuti con farina di grano che a seconda della preparazione assume caratteristiche differenti. Le paste secche devono essere preparate solo con semola di grano duro (in Italia mentre all’estero è ammesso anche l’utilizzo del grano tenero con l’inconveniente di non tenere la cottura) mentre la farina di grano tenero può essere utilizzata per le paste fresche. La pasta cui sono stati aggiunti altri ingredienti viene definita speciale (tortellini, ravioli, gnocchi, ecc.). Infine le paste all’uovo devono essere preparate aggiungendo 4 uova intere di gallina del peso di 200 g per ogni kg di semola o farina.
La pasta è ricca di carboidrati (amido) con un discreto quantitativo di proteine a basso valore biologico ed una quota di grassi irrilevante, tranne quelle speciali o all’uovo. I condimenti arricchiscono notevolmente l’apporto nutrizionale sia per quanto riguarda il contenuto proteico che lipidico, e possono rappresentare in questo caso un alimento completo. Da non dimenticare il felice abbinamento con i legumi che consente di ottenere un piatto unico equilibrato con un contenuto proteico paragonabile a quello di un piatto di carne o di pesce”.

Polenta per tutti
I rapporti tra le diverse civiltà portarono novità in tavola: il contatto con gli Arabi, ad esempio, permise di conoscere i gusti di un nuovo mondo, i suoi ingredienti e ricette insolite, soprattutto il cuscus, a base di semola di grano duro.
Deriva invece dalla scoperta dell’America l’uso del mais, che tra i vegetali americani fu una delle la novità che ebbero la maggior diffusione. Michele da Cuneo, in una relazione stesa durante il secondo viaggio di Colombo, lo chiama per primo con questo nome mais (mahiz); in area veneta, gli sarà dato il nome del diverso per antonomasia, ‘granoturco’. Il mais si usava per la polenta, come il sorgo.
E proprio sulla polenta (parola latina, puls) si basava la preparazione di un intero menù della festa: veniva fatta con il farro, cereale più grossolano e duro, condita con gli elementi a disposizione: latte e formaggio, carne di agnello o di maiale. La puls era nota nell’area mediterranea; Apicio parla della puls punica, fatta con farina, miele formaggio fresco e uova; alla fine del XV secolo il Platina nel De honestate voluptate et valetudine cita ancora la polenta di farro.
“Oggi la polenta viene gustata per lo più nel periodo invernale – spiega Manuela Pastore -. Viene tradizionalmente preparata con la farina ‘gialla’ derivata dalla macinazione della cariosside del mais o granoturco e separata dal germe mediante setacciatura. La cariosside contiene una buona quantità di carboidrati (amido) e di proteine a basso valore biologico, mentre i grassi, che si trovano nel germe che viene separato, si trovano nella polenta in scarsissime quantità”.

Le bevande
Riguardo poi alle bevande che nel Medio Evo accompagnavano i pasti, feriali e festivi, si potrebbe aprire un ampio squarcio storico; si può accennare alla ‘cervoise’, tipica dei paesi del Nord, mentre il sidro – ‘sicera’ – , è usato in Normandia con innesti di meli che giungevano dalla Spagna. Il vino – come la birra – era prodotto d’eccellenza di abbazie e monasteri, protagonisti indiscussi in quella che si può definire ‘coltura come arte’.
“L’apporto calorico del vino non è trascurabile: fornisce infatti 7 kcal ogni grammo di alcol – precisa Manuela Pastore -. Il vino si ottiene dalla fermentazione alcolica totale o parziale dell’uva. I suoi componenti sono numerosi. L’acqua rappresenta l’85-90% del prodotto finale nella quale sono sospesi tutti gli altri costituenti. Fra questi l’alcol etilico e l’anidride carbonica, i prodotti principali della fermentazione alcolica. Un prodotto secondario della fermentazione alcolica è il glicerolo, che conferisce al vino il sapore morbido e vellutato. Costituenti minori sono acidi e sostanze volatili che concorrono alla formazione dell’aroma, zuccheri presenti in quantità trascurabili nella maggior parte dei vini, sali minerali che concorrono al sapore del vino, vitamine in quantità di molto ridotte rispetto al contenuto del mosto. Infine, soprattutto nel vino rosso, i coloranti, di diverso tipo ma tutti riconducibili alla categoria dei polifenoli, cui si riconoscono diverse caratteristiche: contrastano l’aggregazione piastrinica, inibiscono la crescita tumorale, limitano l’ossidazione delle lipoproteine a bassa densità (LDL) responsabili dell’innesco del processo arteriosclerotico”.

A cura di Cristina Borzacchini

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