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Alessandro Bergonzoni: io punto tutto sui risvegli

20/10/2003

Gente di spettacolo e solidarietà: molto spesso solo un escamotage da parte del personaggio più o meno conosciuto per farsi della pubblicità. Ma quando si scopre che dietro a un’idea, a un messaggio, c’è un protagonista sincero, che insomma ci crede, la sorpresa è doppia.
E’ il caso dei tre spot “Pubblicità progresso” trasmessi in questi giorni sia dalle tv nazionali che dall’emittente radiofonica “Latteemiele”, in programmazione fino alla fine di novembre, per la costruzione de La Casa dei Risvegli Luca De Nigris, voluta dall’associazione onlus “Gli amici di Luca” (numero verde:800-998067). L’interprete è il 45enne comico bolognese Alessandro Bergonzoni, autore di se stesso in tantissimi testi teatrali, libri, monologhi radiofonici e prossimamente in un film, dal titolo “A cosa serve leccare una suola”, tratto dallo spettacolo teatrale “Madornale 33”.
Nonsense, paradossi cronologici e calembour, gli ingredienti essenziali dell’attore. Bergonzoni, Casa dei risvegli e Luca. Tre tessere di un mosaico delicato, quanto importante. La Casa dei risvegli è un centro per giovani in
coma, che entro il prossimo giugno dovrebbe sorgere tra Bologna e San Lazzaro di Savena, nei pressi dell’ospedale Bellaria. Una casa di cura pensata e fortemente voluta dai genitori di Luca De Nigris, un ragazzo di 16 anni, in coma nel ’97 per 240 giorni, prima uscitone grazie alla cure sostenute, all’interno dell’attrezzatissimo ospedale di Innsbruck, dall’associazione “Amici di Luca”, e poi morto. Bergonzoni? Un giocoliere del linguaggio, deciso a mettere a disposizione di chi soffre, soprattutto parenti e amici del malato, tutto il suo bagaglio di esperienze. Rimanendo se stesso e rompendo alcuni tabù.

Bergonzoni, tre spot per riflettere, apparentemente slegati l’uno dall’altro, ma con un unico obiettivo: comunque parlarne.
“Per far conoscere il progetto della Casa dei risvegli ho pensato, insieme al regista degli spot, Riccardo Rodolfi, che si dovesse giocare sul concetto di presenza-assenza. Due elementi essenziali nel sociale e quindi nella sfera del mentale. In tutto quello che faccio, che dico, ritengo che non si possa prescindere dalla coscienza e dalla sua stessa analisi”.

D’accordo, ma sembra d’essere in uno dei suoi spettacoli.
“Può darsi. Ma realtà e fantasia, a teatro come nella vita, e quindi anche in pubblicità, si incrociano continuamente, passando, come dire, dalla penna al pomodoro, dal rosso che indica paura alla bellezza…”.

Parliamo degli spot.
“Sì. Nel primo, sono seduto su una sedia e mi sto togliendo una scarpa, poi un calzino, un gesto semplice, apparentemente naturale che indica comunque un rivoltamento (il calzino) di una situazione ben precisa”.

Il secondo messaggio?
“Forse il più teatrale, ma nello stesso tempo il più diretto. Esco da un corpo di cavallo finto e dico: ‘Un cavallo che vale lo danno vincente, un uomo in coma lo danno per perso, io punto tutto sui risvegli’. E infine, nel terzo, un primissimo piano del mio bel faccione, prima a occhi chiusi e poi spalancatissimi, e la frase: ‘Pensavate che quest’uomo stesse dormendo, nooo…”.

Come è venuto a conoscenza della Casa dei risvegli?
“In modo del tutto naturale. Da più di dieci anni, ormai, nei miei spettacoli mi occupo del sociale e quindi anche del mentale, insistendo tantissimo sui concetti di memoria, coscienza e analisi della coscienza. Non è il progetto della Casa che è venuto da me, ma ci siamo incontrati in uno spazio mentale affine”.

E adesso, oltre a esserne un testimonial, frequenta ospedali e università tenendo lezioni sull’argomento.
“Non proprio. In questo mio girovagare fra teatri, ospedali e università, che metto volutamente insieme senza differenza, propongo un nuovo rapporto. Ne ho parlato anche a Bologna durante l’annuale Giornata dei risvegli per la ricerca sul coma, tra paziente, medico e parente.”.

Cosa sarebbe?
“E’ semplice. I medici, coloro che sono preposti a spiegare ai parenti o agli amici la gravità di una malattia, spesso utilizzano un linguaggio freddo, che sa di medichese. Insomma, si tratta di un metodo che non considera l’impreparazione di chi ascolta. L’amico, il parente, i secondi malati che nessuno però cura mai, hanno bisogno di una forma nuova di comunicazione, e negli ospedali è difficile trovare qualcuno in grado di farlo”.

Si prenota per una cattedra?
“Ma no. Le mie presenze, come quelle all’Università di Milano o all’ospedale Sant’Orsola di Bologna, sono in veste di raccontatore. Io narro le mie esperienze per sensibilizzare la gente e farla entrare, con la fantasia, nelle stanze dell’accoglienza, le stesse della Casa dei risvegli”.

Le risulta facile scardinare alcune certezze, o incontra difficoltà?
“Da sei anni a oggi, ho intensificato i miei incontri nell’ambito del disagio, sto parlando di luoghi come manicomi, carceri, realtà oggettivamente chiuse al mondo esterno, ma paradossalmente non ancora incrostate, cioé non contaminate dai pregiudizi. Da una parte io come propositore di idee sulla comunicazione, dall’altra l’istituzione, che si crede infallibile: ne viene fuori una bella battaglia, mi creda”.

Qualche esempio.
“Due anni fa, durante un convegno, io parlo, espongo, comunico; a un tratto si alza un dottore e mi fa: ‘Vabbene, i metodi palliativi li trattiamo una seconda volta’. Ma scherziamo? In tutti i casi che mi sono capitati, anche amici in coma, ho potuto constatare che l’approccio alla guarigione non è solo nei numeri e nelle statistiche”.

Si immagina dunque come una sorta di pagliaccio in corsia?
“Forse sì, ma senza un’invasione del reparto ospedaliero. Io rimango un attore, anzi un ‘pensattore’, che non avrebbe mai calcato le tavole di un palcoscenico, se non fosse stato prima di tutto autore di se stesso. Secondo una naturale armonia”.

Ricapitoliamo: armonia, natura e piena coscienza di se stessi…
“Ma senza esagerare. La natura va seguita, ma non in maniera violenta, così come la medicina alternativa non può essere l’unica soluzione ai problemi”.

Per caso, è un convinto omeopatista?
“Credo nella medicina ufficiale, se rapportata, osservata e interfacciata. E’ l’uso del mentale il segreto di tutto, a teatro come a tavola, entrambi luoghi senza certezze”.

In che senso?
“Sono un ex suino, che da cinque-sei anni, grazie a un omeopata amico, si è trasformato dapprima in un mangiatore guidato, poi in un salutista illuminato”.

Si aiuta anche facendo sport, correndo in auto…
“Ho praticato hockey su ghiaccio, a Cortina, fino a 25 anni d’età. Fa parte ormai del mio passato remoto. Adesso mi rimangono lo swash, complice mia moglie, e, due volte alla settimana, jogging. L’auto? Solo una passione.
Sono alto un metro e ottantasette centimetri, con i tacchi sfioro il metro e novanta, inoltre, calzo il quarantasei di piede. Già la natura non ha voluto che entrassi in una monoposto, figuriamoci a uscirne…”.

A cura di Peppe Aquaro

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