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La buona vita del monastero

25/07/2003

Dai monasteri deriva gran parte del galateo della tavola, essenziale e preciso, con un senso del decoro che oggi apprezziamo a fatica. Proviamo a fare un viaggio indietro nel tempo in questi luoghi di preghiera e di intenso lavoro, dove sono nati alcuni degli usi entrati nel quotidiano

Il galateo è ancora di moda, ogni anno si perfeziona e i vip scrivono il “loro”. Ma quello vero che esce invece dalle pieghe della storia, affascina per i profondi significati che si nascondono e si prova quasi gusto a seguirlo. Nel Medioevo, non quello del romanzo Il nome della rosa, quello fatto di uomini e donne in carne e ossa, con uno spiccatissimo senso della vita non solo religioso ma anche estetico, il galateo era il punto di riferimento per il buon vivere suffragato dall’osservanza della regola per un costante controllo del comportamento, del gestire e del parlare.
Forse non tutti collegano a radici lontane, i monasteri, gli usi in vigore da sempre.

Nella Francia del XII secolo
Per questo, immaginiamo di fareun tour in un’abbazia immersa nel verde; siamo in Francia, un monaco di poche parole, le mani sotto lo scapolare ci invita con un cenno del capo a seguirlo. E’una visita privilegiata alle cucine e al refettorio, uno spaccato della vita dei monaci nel Medioevo che storici del calibro di Léo Moulin hanno proposto ai lettori che provano attrazione invincibile per dame e cavalieri, castelli e giostre. Il monastero è un mondo autonomo dove si trovano anche i rampolli cadetti di qualche grande famiglia. Forse anche questo contribuisce ad elevare “il tono” degli atti comuni; in abbazia troviamo il monaco un po’ rude, abituato ai lavori pesanti e quello che sa leggere l’ufficio in latino, sa cantare, soprintendere e distribuire il lavoro tra laboratori frantoi, mulini, pascoli e fittavoli. E’ grazie a questa attività che si vive senza elemosine, con la possibilità di dare ai poveri che bussano numerosi.

Alla scoperta dei segreti dell’abbazia
Il monaco nostra guida ci conduce a tarda mattinata verso le cucine; in questa abbazia vivono ottanta monaci di ogni età nell’osservanza dell’ora et labora– di san Benedetto, ferve l’attività di trascrizione e miniatura di codici e si produce anche un ottimo formaggio. Appena sulla soglia si intravedono larghi tavoli, laggiù il camino e, a parte, il forno da cui è uscito il pane per il giorno. Il refettorio, dalle ampie e bianche volte è solenne e sbocca nel chiostro piccolo: il tavolo dell’abate è sopra una pedana e una grande croce orna la parete. Dopo essersi detersi le mani presso il lavabo antistante l’ingresso i monaci entrano, dai più giovani ai più anziani fino all’abate, per il prandium; le tavole disposte a ferro di cavallo creano una coreografia naturale e la comunità, preso posto, si inchina al suo passaggio. Dopo la preghiera iniziale si siedono e non spiegano il tovagliolo prima dell’abate, mentre è uso tra i laici usare… il risvolto della manica. Inizia subito la lettura di un brano della regola, e di un altro scritto spirituale, per “nutrire lo spirito assieme al corpo”; con sollecitudine sconosciuta alle precedenti regole monastiche, il monaco incaricato della lettura può prendere qualcosa… in modo da non patire il languore. Giova ricordare che la pietanza si chiama così dal latino pietas, perché è un supplemento di cibo offerto dal buon cuore dei fedeli.
Soprattutto nei primi secoli del monachesimo c’erano un unico piatto e un unico bicchiere per due, ecco perché era importante osservare delle norme di igiene prima d’allora sconosciute. No dunque al bere con la bocca piena e alla dimenticanza di pulirsi prima di accostarsi al bicchiere.
Il pranzo è inteso come gesto liturgico, perché tutta la giornata e ogni suo atto è rivolta a Dio. I confratelli, con turno settimanale, iniziano il servizio a tavola incominciando dall’abate fino all’ultimo postulante.

Regole per i commensali
A noi oggi, abituati ad un’informalità estrema, possono sembrare esagerate certe attenzioni e se pensiamo che si mangiava in perfetto silenzio, senza far rumore di piatti o posate e senza abbuffarsi, da parte di uomini in piedi da molte ore, quei tempi non sembrano più così incivili! La necessità della convivenza, non facilitata da vincoli di parentela o di sangue, la motivazione stessa della vita consacrata, portava all’osservanza di un decoro che per la regola benedettina è parte integrante dello stile monastico. A tavola, se un monaco inavvertitamente non riceveva la sua razione, aspettava con pazienza di farlo notare con un gesto alla prima occasione. Non osservava mai quanto mangiava il suo compagno né sbirciava nel suo piatto; ringraziava con un gesto del capo chi lo serviva e raccoglieva con un coltello o una spazzola le briciole rimaste sulla tavola. Le razioni abbondanti di verdura e legumi, il vino, il grosso pane posto a fianco dei piatti, ci hanno fatto capire che i monaci si nutrono a sufficienza per affrontare una vita rigorosa, fatta di studio, lavoro, applicazione intellettuale. Ad un cenno dell’abate, tutti i monaci si alzano e si pongono davanti al tavolo per il ringraziamento, e in fila, come sono entrati, escono e lasciano che gli addetti alla pulizia adempiano al loro ufficio mentre il lettore consumerà da solo il suo pasto. Ricompare discreto il monaco che ci ha permesso di fare capolino in un momento così intimo della vita di ogni giorno e lo seguiamo fino alla piana delle viti. I monaci nella viticoltura erano autentici pionieri e la “civiltà del grappolo” diede origine a molti tipi di vino che noi non colleghiamo certamente ai loro esperimenti tra cui il Gattinara dei Cistercensi, il Frascati dei monaci di Grottaferrata, il Lacryma Christi, il Bardolino. Anche i liquori, la birra, il sidro avevano nei locali di pietra dal giusto grado di umidità il loro terreno naturale per crescere in qualità e varietà assieme a liquori digestivi, cordiali, sciroppi.
Il vino era indispensabile soprattutto per l’Eucaristia, e usato nella dieta – anche come rimedio – per sostenere un ritmo di vita che non conosceva vacanza. I monaci sapevano anche sfruttare le proprietà termali, come l’acqua di Vichy, ancora oggi famosa.
Il monastero è stato il luogo autentico della civilizzazione.
Lo “zotico” e l’incolto erano ben accolti purché “cercassero veramente Dio” e accettassero di buon grado gli usi suggeriti dalle costumanze e dall’esperienza che gli miglioravano come uomini, prima ancora che come monaci. Con questa precisazione, lasciamo il monaco, sapendo che il discorso sarebbe da sviluppare se avessimo più tempo a disposizione…

Ai nostri giorni
Ancora oggi le buone maniere a tavola si estendono in tutti i momenti della vita comunitaria. Abbiamo parlato “al maschile”, ma quanto detto vale anche per i monasteri femminili, dove in più è coltivato l’uso, sempre più invalso nel tempo, di preparare pietanze e dolci (alcuni speciali, come la crema di rose) ad uso dei visitatori, dei benefattori e consumati dalla comunità solo nelle grandi feste.
Chi soggiorna presso la foresteria di un monastero, può trovare una grande attenzione verso l’ospite che “è sacro”.
Suppellettile con lo stemma dell’ordine, cibo vario e sano, in cambio di un’offerta libera (sono pochi i monasteri che stabiliscono tariffe) sono solo i segni esteriori di una vita tesa alla bellezza, anche se la frenesia dei rapporti oggi tende a considerarli superati. L’uso di tovaglie ricamate nei giorni di festa e di fiori che rallegrano la tavola, sono per la comunità e per gli ospiti. In alcune abbazie, come quelle femminile di Rosano, presso Firenze (sorta nel 780), o sull’Isola di san Giulio, circondata dal lago d’Orta nella valle del Cusio, entrambe fiorenti, l’attenzione al particolare è portata al massimo, con una cura per l’arredo e per il menù. Altrove, come dalle Trappiste di Vitorchiano, in piena campagna viterbese o di Valserena a Guardistallo (Pisa), l’accoglienza è più spartana, ma non per questo meno monastica. Ancora oggi infatti, ogni luogo è indipendente quanto a usi, anche se è comune la base della regola, arricchita di quel particolare tipico delle singole osservanze.
Un consiglio per chi vuole provare una vacanza utile al corpo e allo spirito e che fa tornare all’essenziale è “lanciarsi” per pochi giorni ( la prima volta è consigliabile un breve periodo) alla scoperta di quella civiltà monastica che continua vigorosa e desiderosa di far partecipe il visitatore della sua pace e della sua ricchezza umana, spirituale e culturale.

Curiosità
Non sporcate il pane dei poveri
È poi doveroso non solo vietare ma considerare con orrore quell’ usanza che è in vigore nella maggior parte dei monasteri, vale a dire l’abitudine di asciugarsi le mani e pulire i coltelli con i pezzi di pane che sono avanzati dal pranzo e che devono essere destinati ai poveri, perché in questo modo per risparmiare la biancheria da tavola si sporca il pane dei poveri, anzi il pane di Colui che, parlando di loro, ha detto: «Ciò che fate al più piccolo dei miei servi, lo fate a me.»
(Pietro Abelardo, «Lettere»)

In alto: Monaci al sacro desco, affresco del XVI secolo.

Servizio di Cristina Borzacchini

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