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Klinger: un’opinione sul trapianto di faccia

13/12/2005

Ha fatto scalpore, nei giorni scorsi, la notizia del trapianto di volto eseguito su una donna ad Amiens. Tutti i giornali del mondo l’hanno ripresa, dando ampio spazio alle implicazioni psicologiche che questa nuova frontiera della chirurgia comporterebbe. E andando spesso oltre la cronaca del fatto scientifico. Ma tutto quello che è stato detto a proposito è corretto? Oppure è necessario fare più attenzione nell’affrontare questi argomenti?
Ci aiuta a capire il prof. Marco Klinger, responsabile dell’Unità Operativa di Chirurgia Plastica II dell’Istituto Clinico Humanitas e docente della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Milano.

Professor Klinger, qual è stata la sua prima reazione quando ha letto del trapianto di volto di Amiens?
“La mia prima impressione è stata di perplessità di fronte all’eccessiva enfasi data alla notizia. Si è concesso ampio spazio alle riflessioni psicologiche e filosofiche e non si è quasi per nulla capito cosa è accaduto veramente in quella sala operatoria”.

Cosa è accaduto?
“Si è trattato in sostanza di un impianto di parti di pelle, simile agli innesti eseguiti su pazienti ustionati. Non è del tutto vero che i tratti del volto della donna che ha avuto il trapianto cambieranno completamente, tantomeno si può affermare che avrà una nuova faccia. Si tratta di una ricostruzione parziale, che coinvolge la pelle e pochi tessuti sottocutanei. Il viso della signora quindi non sarà molto diverso da quello che aveva prima”.

Quali sono le difficoltà cliniche in questi casi?
“Nei trapianti ‘non salvavita’, cioè di organi non vitali come il cuore o il polmone, il problema non sono le difficoltà tecniche. Le strutture di base infatti restano le stesse e viene impiantata una parte perfettamente adattata al corpo ricevente. Ad esempio, è molto più semplice impiantare una mano nuova piuttosto che recuperare l’arto originario, staccato in modo traumatico. Non si parla abbastanza però delle difficoltà dei mesi successivi al trapianto e delle conseguenze sulla vita di questi pazienti, che purtroppo sono spesso drammatiche. Alcuni sono morti per gravi malattie contratte a causa delle terapie immunodepressive, altri hanno rigettato il nuovo arto”.

Cosa determina queste gravi conseguenze?
“Questi trapianti creano problemi a causa delle terapie immunodepressive e antirigetto. Dopo l’intervento arriva il vero calvario per il paziente, perché il rischio di rigetto è altissimo. La paziente francese sarà fortemente immunodepressa, in pratica non potrà neppure uscire di casa, perché sarà esposta alle infezioni. La pelle è il tessuto più pericoloso da questo punto di vista. Occorre porsi un dubbio: la paziente ora vivrà meglio di come viveva prima?”.

Quindi lei boccia questo tipo di intervento?
“No. La mia non vuole essere una critica distruttiva. Quello che è stato fatto è di sicuro un passo in avanti interessante e importante nella medicina. In questo senso ogni nuova tecnica è da tenere in considerazione. Ritengo tuttavia che in casi come questo sia doveroso, prima di enfatizzare la notizia, spiegare in modo chiaro e approfondito che cosa è avvenuto veramente, oltre che segnalare anche i problemi e gli effetti collaterali e precisare che questo tipo di tecniche è ancora nella fase iniziale. Altrimenti si rischia di creare false speranze, di illudere i pazienti meno informati. Potremmo arrivare all’assurdo che gli ustionati, o addirittura coloro che non sono soddisfatti del proprio viso, pensino di poterne avere uno nuovo”.

Ma in futuro si potrà arrivare a interventi di questo genere, puramente estetici?
“Credo che nel campo della scienza applicata alla chirurgia estetica nulla sia vietato, le prospettive per il futuro sono pressoché illimitate. E per fare progressi ogni contributo è utile. Quello che non trovo corretto è strumentalizzare certi interventi per scopi meno nobili della ricerca. La corretta informazione del paziente, che deve poter distinguere ciò che è meglio per lui da ciò che è meglio per il chirurgo che lo opera, è il primo dovere etico di ogni medico”.

Di Cristina Bassi

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