Infarto, una corsa contro il tempo

Un dolore violento al petto, dietro lo sterno, al braccio o al collo. Un malessere diffuso. Uno stato di agitazione accompagnato da pallore, sudorazione, tachicardia e agitazione. Un dolore che può durare anche ore, e che non risponde ai nitrati (come nell’angina pectoris) e spesso neanche agli oppiacei: sono i primi sintomi dell’infarto, che non sempre vengono riconosciuti e trattati con l’attenzione che meritano e, soprattutto, in tempi ristretti. Eppure tutte le statistiche dicono che ogni minuto che passa può fare la differenza tra la vita e la morte e, in ogni caso, tra un danno più o meno grave al muscolo cardiaco, che può essere anche del tutto assente se l’intervento riparativo viene effettuato entro un’ora dall’infarto acuto.
Oggi in Italia il tasso di mortalità delle malattie coronariche è di 129 per 100.000 abitanti (143 per gli uomini e 116 per le donne), e la spesa sanitaria è stimata attorno ai 3.400 milioni di euro, pari al 4,4% della spesa totale del Servizio Sanitario Nazionale (secondo dati del 2001). Nonostante l’Italia sia uno dei paesi sviluppati con la più bassa mortalità, l’infarto e le malattie cardiache sono ancora oggi la prima causa di morte.
Questo sebbene, negli ultimi anni, le possibilità di cura si siano ampliate notevolmente, in parallelo all’affermazione dell’angioplastica, dell’inserimento degli stent e, da ultimo, dell’impiego di stent medicati, cioè ricoperti di farmaci che rallentano la formazione di tessuto cicatriziale, impedendo così che il vaso che è stato aperto possa richiudersi in risposta a quanto è stato fatto. A patto che si intervenga per tempo.
La dott.ssa Patrizia Presbitero, responsabile dell’Unità Operativa di Emodinamica di Humanitas, chiarisce il ruolo e l’importanza di questi interventi.

Innanzitutto, che cos’è l’angioplastica?
“L’angioplastica, conosciuta anche come tecnica del palloncino (ma più propriamente detta Angioplastica Transluminale Coronarica Percutanea o PTCA) è un procedimento che consente di dilatare i vasi che trasportano il sangue alle strutture cardiache (arterie coronariche) nel caso siano occluse, in parte o del tutto, a causa delle placche aterosclerotiche. Un obiettivo che si ottiene senza necessità di un vero e proprio intervento chirurgico, con una modalità minivasiva che è assai simile a quella impiegata per le coronarografie”.

Come viene effettuata?
“L’angioplastica viene eseguita da personale altamente specializzato e capace di effettuare manovre di rianimazione nella sala di emodinamica; il paziente viene posto sul lettino di cateterismo, dove può essere tenuto sotto controllo in tempo reale per quanto riguarda tutte le funzioni vitali (polso, pressione e ritmo cardiaco) e dove possono essere predisposte le terapie farmacologiche eventualmente necessarie.
La procedura inizia con un’anestesia locale a livello dell’inguine o del braccio, che consente di introdurre nell’arteria femorale o in quella brachiale, in modo del tutto indolore, un tubicino detto introduttore di un diametro adeguato a ospitare i vari cateteri impiegati. Talvolta può essere messo anche un introduttore nella vena femorale, per eventuali emergenze (per esempio il posizionamento di un pace maker esterno che assicuri un battito cardiaco corretto). Dopo che è stata individuata la posizione esatta del restringimento o dell’occlusione si introduce il cosiddetto catetere a palloncino, che può essere gonfiato fino a venti atmosfere di pressione e può raggiungere un diametro di 2-6 millimetri, a seconda del diametro del vaso. Il catetere scorre su un filo metallico che permette di far giungere il tutto a destinazione. Il palloncino viene gonfiato una volta arrivato sulla placca e riesce così a spingere verso le pareti e frantumare la placca stessa. Molto spesso si applica quindi nel lume del vaso uno stent, cioè una reticella metallica che, oltre a mantenere il vaso aperto, impedisce la formazione di tessuto cicatriziale nei sei mesi successivi all’intervento. Questo fenomeno, chiamato ristenosi, è purtroppo abbastanza comune e si può verificare in risposta all’insulto ricevuto.
Dopo l’intervento è opportuno che il paziente rimanga 12-24 ore in Unità coronarica, con gli introduttori e nell’arteria, per intervenire immediatamente in caso di riocclusione acuta del vaso dilatato (un’evenienza che si verifica in meno del quattro per cento dei casi). In genere, durante il ricovero viene effettuata una terapia con farmaci antiaggreganti piastrinici”.

Chi deve essere sottoposto all’angioplastica?
“L’obiettivo della tecnica è il ripristino del flusso sanguigno in una zona del cuore dove, a causa dell’occlusione di un vaso, si determina un’ischemia, al fine di limitare o evitare del tutto la comparsa delle conseguenze tipiche dell’ischemia stessa: angina, infarto o decesso. In generale ci sono due tipi di pazienti ai quali è opportuno praticare un’angioplastica: quelli con un infarto acuto in atto e quelli che, avendo un’occluisione parziale, sono probabili candidati all’infarto o soffrono di angina pectoris. Ovviamente i primi richiedono un intervento più urgente dei secondi. I fattori di rischio per queste malattie sono il diabete, l’ipertensione e l’aterosclerosi, il fumo e l’ipercolesterolemia familiare”.

Quali sono gli effetti indesiderati e i rischi dell’angioplastica?
“Nel 20-30 per cento dei casi entro sei mesi dalla procedura il vaso tende a richiudersi nella sede dell’angioplastica, perché le pareti rispondono all’insulto del palloncino formando nuovo tessuto cicatriziale: in questi casi la PTCA può essere ripetuta senza aumento dei rischi e con le stesse probabilità di successo. L’angioplastica comporta inoltre un rischio di complicazioni durante l’esecuzione della procedura, anche se si tratta di eventi rari (la mortalità è pari a circa 0,5 per cento dei casi, la probabilità di un infarto acuto è valutata attorno allo 0,2-0,3 per cento). Vi possono poi essere conseguenze minori quali la formazione di un ematoma nel punto dell’inserimento degli introduttori. Molto dipende dalle condizioni generali del paziente e dal tempo trascorso tra i primi sintomi all’intervento”.

Qual è il ruolo degli stent medicati e a che punto è il loro utilizzo in clinica?
“Gli stent medicati, chiamati anche DES, sono stent la cui superficie è ricoperta con antitumorali e sostanze antirigetto in una formulazione a rilascio più o meno prolungato. Il loro utilizzo ha fatto calare le percentuali di ristenosi dal 20-30 per cento all’attuale 10. Come tutti i dispositivi nuovi, tuttavia, i DES hanno un costo molto elevato e per questo vengono ancora impiegati in popolazioni selezionate di malati, cioè nelle persone più a rischio perché colpite da placche in vasi di piccolo calibro, presentano lesioni lunghe o sono diabetiche. E’ probabile comunque che nel tempo la loro diffusione aumenti, anche perché è stato di recente dimostrato – grazie a uno studio effettuato in molti centri italiani – che essi fanno risparmiare molto denaro al Sistema sanitario nazionale in termini di minore numero di interventi invasivi, minor necessità di terapie e di riabilitazione. I DES, infatti, oltre a migliorare la qualità di vita dei pazienti e consentire loro di non essere rioperati, permettono il passaggio di alcuni malati dallo status di candidati al by-pass (con costi e rischi molti alti) a quello di candidati all’angioplastica, favorendo una scelta più ampia di trattamenti, una maggiore disponibilità di posti letto per il trattamento di nuovi pazienti e riducendo i costi per la riabilitazione post chirurgica”.

Qual è il ruolo del Pronto Soccorso in queste situazioni?
“Il Pronto soccorso, così come tutta la rete degli interventi di emergenza (che comprende anche le ambulanze e il 118) ha un ruolo fondamentale perché un infarto colto in tempo può anche non avere conseguenze, così come uno riconosciuto troppo tardi può essere fatale. Per migliorare l’efficienza oggi ci sono autoambulanze dotate di un elettrocardiografo che trasmette in tempo reale i dati cardiologici del paziente al Pronto Soccorso o dell’Unità Coronarica: in questo modo il cardiologo capisce immediatamente se c’è necessità di un’angioplastica e, in caso sia così, evita anche il passaggio al Pronto soccorso e fa trasportare subito il malato in emodinamica, dove l’équipe è pronta a intervenire. In Humanitas la sala è attiva dalle 8 alle 20 e di notte il team è in grado di intervenire con un preavviso di 20-30 minuti al massimo. Un altro punto di forza di Humanitas è la presenza costante di un cardiologo nel Pronto soccorso, perché non sempre i sintomi di un infarto sono chiarissimi o si vedono dal tracciato dell’elettrocardiogramma. Purtroppo, però, in una città come Milano le autoambulanze collegate in rete sono solo il 15 per cento e sono ancora pochi in Italia i Pronto soccorso che prevedono la figura del cardiologo. C’è da augurarsi che la situazione migliori, perché queste misure abbastanza semplici e non troppo costose possono salvare molte vite”.

Redazione Humanitas Salute: