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Prevenzione

Cuore matto sotto chiave

18/12/2001

Dott. Zardini, cosa sono le aritmie cardiache? Sono patologie frequenti?
Per aritmia si intende qualsiasi disturbo del normale ritmo cardiaco. Il cuore infatti deve mantenere una frequenza cardiaca adeguata alle condizioni di attività del soggetto. Quando la frequenza cardiaca è troppo alta si parla di tachicardia, se invece è troppo bassa si parla di bradicardia.
Alcune aritmie sono idiopatiche, avvengono cioè in persone dal cuore sano, rappresentano l’unico problema clinico corrente, e sono quelle più diffuse tra i giovani. Altre sono invece secondarie ad un’altra patologia cardiaca, in genere un infarto miocardico, una cardiomiopatia o una valvulopatia, e colpiscono prevalentemente pazienti anziani. L’importanza clinica di un’aritmia dipende principalmente dal tipo di aritmia e dalla presenza o meno di un’altra cardiopatia organica. Vi sono aritmie che rappresentano solo un disturbo della qualità della vita, e altre che invece sono potenzialmente letali.
Le aritmie cardiache sono un problema clinico molto frequente nell’ambito della patologia cardiaca. Solo per fare un esempio, lo studio Framingham, la maggior indagine epidemiologica finora condotta per le malattie cardiovascolari, ha rilevato che circa il 7% della popolazione generale adulta può andare incontro ad almeno un episodio di fibrillazione atriale nel corso dell’esistenza.

Quali sono le metodiche diagnostiche e terapeutiche correnti alle quali l’elettrofisiologo può ricorrere?
Bisogna sottolineare innanzitutto che non si cura un’aritmia, ma si cura un paziente affetto da un’aritmia. E’ necessario quindi inquadrare il fenomeno aritmico all’interno del quadro clinico generale. Bisogna innanzitutto verificare se l’aritmia è primitiva o secondaria. Nel primo caso, risolvere il problema aritmico significa risolvere il problema clinico; nel secondo caso, invece, il trattamento dell’aritmia rappresenta solo un passo necessario per il miglioramento del quadro clinico generale. Le indagini preliminari sono generalmente non invasive: registrazione Holter, test ergometrico, ecocardiografia, scintigrafia miocardica, risonanza magnetica nucleare, registrazione dei potenziali tardivi, analisi della variabilità della frequenza cardiaca. Sulla base dei risultati di queste, si decide quali indagini invasive saranno successivamente necessarie. La metodica cardinale dell’elettrofisiologia cardiaca è lo studio elettrofisiologico endocavitario, che permette l’analisi delle caratteristiche del battito cardiaco direttamente dall’interno del cuore mediante l’introduzione di elettrocateteri attraverso una o più vene periferiche in anestesia locale e in modo indolore per il paziente. Lo studio può essere quindi seguito dalla costruzione di una mappa elettrica della propagazione dell’impulso cardiaco durante l’aritmia e, se indicato, dall’ablazione transcatetere, che consiste nell’eliminazione delle cellule cardiache responsabili dell’aritmia, ottenuta in genere riscaldando la punta di un elettrocatetere apposito mediante una particolare forma di energia, detta radiofrequenza.
Una metodica di ablazione ancora più recente consiste, invece, nella crioterapia, dove l’eliminazione dell’aritmia si ottiene raffreddando il tessuto cardiaco fino a –70° C.

Quali aritmie possono essere trattate con efficacia dall’ablazione transcatetere?
Da quando questa tecnica è stata introdotta, alla fine degli anni Ottanta, sono stati compiuti grandi progressi nel renderla affidabile, efficace e sicura, tanto che la maggior parte delle aritmie possono oggi essere trattate con successo e con rischio operatorio bassissimo. Un discorso a parte merita la fibrillazione atriale, che causa un battito completamente irregolare e caotico delle camere cardiache inferiori, gli atri. Nei casi refrattari alla terapia farmacologia, si può ricorrere da circa due anni, ad una nuova metodica particolare di ablazione, che consiste nell’isolamento elettrico delle strutture cardiache responsabili della fibrillazione stessa. I risultati conseguiti finora, anche se in casistiche numericamente ridotte, fanno prevedere un ampliamento dell’utilizzo di questa metodica in pazienti attentamente selezionati sulla base del rapporto rischio-beneficio. Nei pazienti con fibrillazione atriale che devono essere sottoposti ad un intervento di sostituzione o plastica valvolare, la tecnica descritta può essere eseguita durante l’intervento stesso, prolungando di poco l’atto operatorio, e con il vantaggio della diretta visualizzazione delle strutture sulle quali si agisce.
Per quanto riguarda le aritmie ventricolari, l’ablazione transcatetere rappresenta la terapia di scelta nella maggior parte dei pazienti con tachicardie ventricolari idiopatiche, nei quali le percentuali di successo sono elevate, con bassi rischi operatori. Nei casi di tachicardie ventricolari secondarie ad una cardiopatia infartuale o ad una cardiomiopatia, invece, l’ablazione può essere indicata solo in una percentuale ristretta di pazienti, vicina al 20%, mentre la restante porzione di pazienti viene trattata mediante l’impianto di apparecchi particolari, detti defibrillatori automatici.

A questo proposito, può illustrare quali sono le principali novità nel campo dell’elettrostimolazione cardiaca?
L’impiego dei defibrillatori automatici impiantabili ha determinato un cambiamento profondo della terapia della aritmie ventricolari maligne. Da un apparecchio rudimentale e guardato con sospetto dalla maggior parte dei cardiologi, ai suoi albori, nel 1980, il defibrillatore automatico impiantabile è diventato uno strumento sofisticato e ormai fondamentale dell’armamentario dell’elettrofisiologo. L’apparecchio, di dimensioni ormai solo di poco superiori a quelle di un comune pacemaker, viene collocato nella regione pettorale con una tecnica d’impianto simile a quella di un pacemaker, in anestesia locale o in sedazione profonda. Esso è in grado di monitorizzare continuamente il ritmo cardiaco, intervenendo in caso di tachicardie ventricolari rapide o di fibrillazione ventricolare con l’erogazione di shock fino a 30-40 Joules, nel giro di 8-10 secondi. Può inoltre stimolare il cuore ad elevata frequenza per interrompere le tachicardie ventricolari più lente, ed infine agisce come un normale pacemaker, in caso di bradicardia. E’ stato dimostrato da numerosi studi clinici che l’efficacia terapeutica di questo strumento nel prevenire la morte cardiaca improvvisa e nel prolungare la sopravvivenza dei malati affetti da tachiaritmie ventricolari maligne è superiore a quella delle altre modalità terapeutiche disponibili. Questo ha motivato la crescita esponenziale del numero d’impianti eseguiti ogni anno nel mondo. Le novità principali in questo settore sono l’attuale disponibilità di defibrillatori bicamerali, cioè dotati di elettrodi posizionati sia in atrio che in ventricolo, con la possibilità di stimolare il cuore in maniera fisiologica nei pazienti che ne hanno bisogno e per una migliore discriminazione delle aritmie sopraventricolari da quelle ventricolari; i defibrillatori atriali e ventricolari, che possono trattare con la stimolazione ad alta frequenza e la defibrillazione elettrica sia le aritmie ventricolari che quelle sopraventricolari; e infine i defibrillatori biventricolari che, analogamente ai pacemaker biventricolari, hanno la possibilità di stimolare contemporaneamente sia il ventricolo destro che quello sinistro, mediante un catetere aggiuntivo introdotto nel seno coronarico. Questa nuova modalità di stimolazione cardiaca viene utilizzata nei pazienti affetti da scompenso cardiaco avanzato refrattari al trattamento farmacologico, con disturbi di conduzione tali da determinare una desincronizzazione della contrazione ventricolare. Gli studi clinici finora effettuati hanno dimostrato un miglioramento clinico e delle capacità funzionali di questi pazienti, grazie al ripristino di una coordinata sequenza di contrazione ventricolare, ma bisognerà attendere il risultato di altri studi clinici in corso per valutare se questo si traduce in un miglioramento della sopravvivenza a lungo termine di tali pazienti.

Come deve essere strutturato un centro di aritmologia?
Come già accennato, il principio è che non esiste l’aritmia da curare, ma il paziente cardiologico affetto da aritmia, al quale offrire un trattamento il più possibile completo. Pertanto, il centro di aritmologia ideale non solo deve garantire tutte le possibilità diagnostiche e terapeutiche aritmologiche più avanzate, sia in termini di competenze specifiche degli operatori che di strumenti e tecnologie a disposizione degli stessi, ma, soprattutto, deve essere integrato all’interno di una struttura cardiologica e cardiochirurgica completa. L’elettrofisiologo deve cioè lavorare in simbiosi con gli altri settori della cardiologia clinica ed interventistica e con il cardiochirurgo, e viceversa, in modo da poter far fronte a 360 gradi alle esigenze cliniche imposte dall’assistenza a questo tipo di pazienti.

Quali sono le prospettive future?
L’aritmologia ha fatto passi da gigante. Dai tempi nei quali l’unica terapia disponibile era quella farmacologica, si è arrivati oggi ad offrire una cura risolutiva per molte aritmie, grazie alle conoscenze ottenute con lo studio invasivo delle aritmie e alle tecniche di ablazione, dapprima chirurgica e ora transcatetere. E’ facile prevedere che l’applicazione dei nuovi strumenti a disposizione dell’elettrofisiologo permetterà, allo stesso modo, di guarire anche quelle aritmie, quali la fibrillazione atriale, per le quali non è costantemente possibile garantire oggi una cura definitiva.

A cura di Francesca Di Fronzo

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