Benessere

Lodolo D’Oria: insegnanti “scoppiati”, ecco il perché

02/09/2003

Che cosa significa per gli studenti la riapertura delle scuole è facile da immaginare. Sveglia presto la mattina, lunghe sedute in aula, interrogazioni e tanto altro ancora. Lo stato d’animo degli insegnanti non è molto diverso, ma alle difficoltà degli studenti possono aggiungersi problemi ben più seri. Ne abbiamo parlato con Vittorio Lodolo D’Oria, medico Inpdap e primo firmatario dello “studio Getsemani” sulle patologie psichiatriche cui sono soggette alcune categorie di lavoratori, in modo particolare gli insegnanti.

Cos’è la “sindrome del burnout”?
“Burnout” significa in inglese “scoppiato” o “bruciato”. Si parla di sindrome quando a causa del lavoro si entra in una spirale discendente prodotta da un accumulo cronico di stress e caratterizzata da sintomi quali l’affaticamento fisico ed emotivo. Un atteggiamento apatico e distaccato nei rapporti interpersonali, nel caso degli insegnati con studenti e colleghi. Un sentimento di frustrazione dovuto alla mancata realizzazione delle proprie aspettative. Infine, un ultimo aspetto è la perdita di controllo degli impulsi (autocontrollo).

Perché avete chiamato “Getsemani” lo studio sul rapporto tra le professioni, in particolare l’insegnamento, e le patologie psichiatriche?
Molti insegnanti si sentono soli e abbandonati dalle istituzioni, dagli “studenti-discepoli” e dalla comunità e infine diventano così preda della tristezza e dell’angoscia. Da qui il parallelismo con l’episodio di Gesù – maestro per eccellenza – nell’orto del Getsemani. Spesso la loro condizione di disagio psico-fisico non viene riconosciuta dal medico come risultante dello stress professionale. A questo subentra disistima, isolamento, vergogna e sfiducia che attivano reazioni di adattamento negative (bere, fumare, pasticciarsi con psicofarmaci).

Quali sono le categorie di persone e lavoratori più colpite?
Nel corso di dieci anni di studi, abbiamo analizzato l’incidenza delle patologie psichiatriche su quattro macrocategorie professionali di dipendenti dell’Amministrazione Pubblica (insegnanti, impiegati, personale sanitario, operatori) e proprio tra gli insegnanti si registra una frequenza di patologie psichiatriche pari a due volte quella della categoria degli impiegati, due volte e mezzo quella del personale sanitario e tre volte quella degli operator. In generale sono più soggette al logoramento psicofisico le cosiddette helping professions, cioè le professioni di aiuto (psichiatri e psicologi, anestesisti, rianimatori, infermieri, assistenti sociali, preti). I più affetti, in misura drammatica, sono però gli insegnanti. Addirittura il 50% delle loro domande di prepensionamento è per una psicopatologia (il 30% tra il personale amministrativo, il 25% tra gli operatori sanitari, mentre il 16% tra gli operatori).

Qual è l’identikit dell’insegnante che soffre di burnout?
L’età media è 48 anni, più bassa rispetto ad altre professioni. Inoltre si tratta di persone già un po’ depresse che, spesso, hanno iniziato ad insegnare con entusiasmo, con molte aspettative e sogni, oppure, al contrario, persone per le quali l’insegnamento è stato una scelta di ripiego. Non ha importanza se il docente è uomo o donna, nonostante in generale le donne siano più soggette a patologie di tipo ansioso-depressivo (in misura doppia rispetto agli uomini).

Quali sono i “fattori usuranti” nell’attività di un insegnate?
In primo luogo ci sono i rapporti e le relazioni con colleghi, studenti e genitori. In particolare oggi questi ultimi non sono più alleati dell’insegnante. Anzi, il genitore è diventato il “sindacalista” del figlio, spesso unico, rivelando in modo più o meno smaccato il cosiddetto “narcisismo genitoriale” e confinando il docente dietro il banco degli imputati. Poi ci sono gli aspetti legati alla società multietnica e multiculturale che richiede uno sforzo continuo di comprensione e aggiornamento. La conflittualità con i colleghi dovuta al fatto che non si è abituati a lavorare in squadra, la situazione di precarietà di molti insegnanti. Inoltre l’aumento della presenza in aula di studenti portatori di handicap ha aggiunto un ulteriore fattore di complessità. Infine la delega educativa della famiglia, frequentemente monoparentale, ha contribuito a rendere più pesante e responsabilizzante l’insegnamento. A tutto ciò, poi, va aggiunto l’avvento dell’era informatica che vede l’insegnate spesso un gradino più in basso rispetto agli alunni, l’autoreferenzialità della prestazione dell’insegnante e la scomparsa delle baby pensioni, un canale importante di uscita per chi non se la sentiva più di insegnare (dalla seconda metà degli anni 90 , con la riforma delle pensioni, si è verificato un aumento del 18% di soggetti colpiti).

Che fine fanno questi insegnanti?
Spesso sono trattati come “l’uomo nero”, trasferiti da una scuola all’altra perché nessuno li vuole. Un gioco al massacro, in cui tutti perdono, barcamenandosi tra sanzioni amministrativo-disciplinari e la necessità di un intervento medico che, a oggi, non è riconosciuto.

Il burnout può degenerare in una patologia più grave?
Pur non essendo a tuttoggi contemplata nel DSM-IV (classificazione internazionale delle patologie psichiatriche) è verosimile ritenere che la sindrome del burnout, quando trascurata, possa costituire la fase prodromica della patologia psichiatrica franca. In particolare, da un lato può slatentizzare precocemente patologie primitive (disturbi paranoidei, schizofrenie, psicosi) dall’altro può addirittura dar vita a patologie di tipo ansioso-depressivo.

Che cosa può voler dire per uno studente avere un insegnate “scoppiato”?
In classe viene a mancare la serenità e spesso si sviluppa una conflittualità tra studenti e insegnati che non sempre resta latente. I genitori invece si preoccupano di allontanare l’insegnante, esercitando forme di pressione sulle direzioni scolastiche per trasferirlo in un’altra scuola, contribuendo al peggioramento dello stato psichico del docente e al perpetuarsi di una storia non certo a lieto fine.

Come va affrontata invece la condizione di disagio psico-fisico?
Il primo passo consiste nel riconoscere l’esistenza della condizione di disagio psico-fisico. Poi correggere i propri stili di vita adottando “reazioni di adattamento positive” (attività sportiva, sana alimentazione, sana gestione del tempo libero) e dedicandosi ad attività extra-lavorative. E’ fondamentale che gli insegnanti imparino a condividere le proprie difficoltà con i colleghi e ad essere in grado di riconoscere il momento nel quale necessitano di un supporto medico, rifuggendo dalla tentazione di isolarsi.
Oggi, al contrario, si assiste al fenomeno noto come “medicalizzazione del disagio”, ossia al ricorso ad una più comoda e veloce terapia farmacologia (negli ultimi 2 anni consumo di psicofarmaci raddoppiato nella popolazione generale). La patologia ansioso-depressiva deve essere quindi affrontata a 360° correggendo gli stili di vita e stimolando un’accorta gestione del tempo libero.

Le istituzioni, invece, come si devono comportare?
L’intervento è molto articolato e vede diversi attori protagonisti. Comunque il primo passo delle istituzioni è riconoscere l’esistenza del problema e veicolarlo adeguatamente a chi è deputato a trattarlo: medici di medicina generale e specialisti.
Gli stessi dirigenti scolastici devono sapere affrontare queste problematiche, attraverso l’attivazione di gruppi di auto-aiuto, l’inserimento di èquipe psicologiche di sostegno, l’introduzione di corsi che aiutino a superare lo stress e ad acquisire autostima.

Quali consigli pratici darebbe a insegnanti, dirigenti scolastici, studenti e famiglie per risolvere condizioni di disagio?
L’errore più grosso che si possa commettere è quello di ricorrere al “fai da te” e affrontare in modo “casereccio” una questione assai complessa che richiede l’intervento di professionalità specifiche.
Mi sono occupato pertanto di attivare un équipe di esperti (psichiatri, psicologi, pedagogisti e insegnanti) per supportare tutte le parti in causa per un’efficace gestione e risoluzione di questi problemi. Dunque chi volesse approfondire il discorso può rivolgersi all’indirizzo e-mail v.lodolo@bates.it

A cura di Marco Renato Menga

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