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Reportage dall’India. Il racconto dei nostri medici

27/02/2015

«La nostra ospite si chiama Momo. Le rughe le solcano il volto come gli anelli di un albero secolare. Tagliato di netto. Ogni cerchio un giro di vita. I suoi occhi opacati da una cataratta incipiente non hanno perso lucidità nel riportare alla memoria il passaggio del tempo. La voce leggera satura l’atmosfera con un suono delicato miscelato al profumo d’incenso, ma le parole hanno quel peso che obbliga la coscienza alla riflessione.

Momo è arrivata nel sud dell’India, nel campo profughi tibetani dove risediamo, anni fa, dopo che l’invasione cinese ha sconvolto il Tibet.

È arrivata qui portandosi in spalla il figlio Tacla. Aprendosi la strada fra i valichi dei monti hmalayani con le mani. Mangiando le suole delle scarpe per vincere il freddo. Nel silenzio obbligato, nemmeno violabile dal pianto di un bimbo per evitare la ferocia delle guardie cinesi. La morte.

Questa è la storia di tanti tibetani, invasi, perseguitati e fuggiti.

Una vita senza patria da rifugiati politici, senza diritti civili. In un luogo dove una visita medica ha il costo di quasi un intero anno di lavoro.

Le dott.sse Francesca Puggioni e Paola Magnoni, il dott. Umberto Cariboni ed io (Luca Malvezzi, ndr) dobbiamo ringraziare il popolo tibetano, che ci ha ospitato, riempito il cuore e arricchito l’amina con il loro sorriso velato di sofferenza e pieno di visione per un futuro di nuovo nella propria terra.

Ci hanno insegnato che la felicità è un modo di vedere.

La visione ciclica della vita dona a loro e chi gli si avvicina un prezioso e raro equilibrio tra lucida meditazione, capacità di usare le facoltà della mente, e serena forza nell’affrontare il destino. Non è passiva accettazione di quella parola tanto abusata in occidente, “karma”. E’ profonda dignità nell’affrontare con consapevolezza la vita…la felicità raccontata in un modo di vedere!

Siamo venuti qui senza pretesa di salvare la vita ad alcuno. Le necessità medico sanitarie di questo popolo sono immense e non bastano certo 4 persone di buona volontà che lavorano per 20 giorni. Il dono che abbiamo portato è legato non tanto al nostro lavoro negli orfanotrofi, nei monasteri, negli ospedali e nei campi profughi disseminati nell’assolata pianura indiana. Il dono, come ci hanno detto loro, è stato quello di partire da molto lontano per regalare il nostro tempo, la nostra attenzione, i nostri sentimenti ad un popolo che soffre per l’indifferenza mediatica. Anche lì la solitudine è il male peggiore

Siamo tornati al nostro ospedale con la certezza di aver fatto qualcosa di utile, non solo per loro ma anche e soprattutto per noi stessi…

Il sorriso, la commozione dolce, il senso di responsabilità e il senso di lavoro di squadra che ci hanno accompagnato in quei giorni rimangono in noi e ci permetteranno di dare qualcosa in più, giorno dopo giorno, visita dopo visita, nel Nostro Ospedale».

 

Reportage a cura del dott. Luca Malvezzi,

delle dott.sse Francesca Puggioni e Paola Magnoni,

e del dott. Umberto Cariboni

 

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