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Adolescenti Emo, la generazione del vuoto

13/04/2010

Il dott. Andrea Jannaccone Pazzi, psicologo di Humanitas, descrive un fenomeno giovanile emergente e difficile da analizzare.

Dott. Jannaccone, chi sono gli Emo?
“Sono ragazzi di età compresa tra i 14 e i 19 anni, con un look dall’aria gotica e che ascoltano musica definita ‘emo-core’. È possibile identificare un adolescente Emo soprattutto dall’abbigliamento: stile punk, smalto nero, occhi truccati, maglioni di lana larghi o magliette molto strette, pantaloni di velluto, scarpe da ginnastica, skinny jeans, frangia asimmetrica che copre il viso, collane con cuori spezzati o teschi; tuttavia, non è solo un modo di vestire, ma un modo di pensare e agire”.

Emo ha un significato particolare?
“Emo, abbreviazione di Emotivo, rappresenta uno stile di vita nel quale è necessario manifestare una condizione depressiva o di dolore in genere. Inoltre, in greco, Emo significa sangue e questo gli fa assumere una connotazione specifica, quale ad esempio la dimensione autolesionistica (tagli sulle braccia o sulle gambe con le lamette)”.

Perché si può considerare un fenomeno nuovo nell’adolescenza?
“Quello che colpisce è l’esigenza di manifestare una condizione di dolore che si riferisce alla propria interiorità. Ciò che ha sempre caratterizzato l’adolescenza è fenomenologicamente l’espressione di un elemento esterno: uno stile di abbigliamento, un modo di atteggiarsi… Oggi, questa espressione adolescenziale non passa più solamente attraverso il riconoscimento, il rispecchiamento estetico, ma sembra caratterizzarsi per la rappresentazione di una dimensione emotiva di dolore”.

Secondo lei, cosa spinge un adolescente a diventare Emo?
“Una domanda complessa che credo possa trovare spiegazioni attraverso la riflessione sulla drammatizzazione dell’emozione dolorosa. Se consideriamo tale fenomeno, si comprende come in realtà, proprio attraverso questa manifestazione, l’adolescente cerchi di enfatizzare qualcosa che fatica a poter sperimentare, vivere. Definirla ‘la generazione del vuoto’, non è un caso. Tale considerazione parte dall’ipotesi che questa drammatizzazione rappresenti evidentemente l’assenza di un substrato emotivo. Non s’intende con questo dire che questi ragazzi non provino delle emozioni, ma che non abbiano sviluppato, o non siano in grado di utilizzare, un apparato per pensare, sperimentare e riconoscere i propri stati emotivi e che solo attraverso l’enfasi di uno di questi si sentano in grado di possederlo, sentirlo, viverlo”.

Può essere considerato pericoloso come gruppo di appartenenza?
“Come tutte le espressioni adolescenziali ha un valore di crescita, distintivo, ma se portato all’eccesso può rappresentare una vera e propria manifestazione di sofferenza psicologica. Non sono, infatti, rari i casi in cui ci s’imbatta in fenomeni di autolesionismo. Tuttavia, ho la sensazione che più che trovarci di fronte a una generazione di ragazzi che vivono un profondo stato di angoscia, assistiamo a giovanissimi che di fronte all’impossibilità di poter ‘sentire’ si ritrovano a manifestare espressioni dal colore acceso con la finalità inconscia di sentirsi vitali. Certamente l’elemento che accomuna questi adolescenti è sempre una dimensione di sofferenza, ma più legata ad un aspetto di plateizzazione (di marca isterica) e a un bisogno enorme di sperimentare un esprit de vivre che li contrappone all’idea e soprattutto al timore della morte, più che ad una sfida profonda della morte stessa”.

A suo avviso da cosa dipende lo sviluppo di tale fenomeno di massa?
“Per comprenderlo è necessario fare riferimento alla nuova era della tecnologia. Fenomeni come Internet amplificano la diffusione dell’informazione e accorciano le distanze interpersonali, trasformano inevitabilmente la dimensione relazionale tra le persone. Questa, svuotata di ogni odore, contatto, di quel ‘sentire’ che appartiene tipicamente alle relazioni umane, tende ad incrementale, nelle generazioni emergenti, un’incapacità di ‘sentire’, a viversi come persone ‘vive e vitali’; ecco quindi il fenomeno autolesionistico prendere forma come soluzione disperata di auto-aiuto.
La realtà virtuale nel quale i ragazzi oggi si trovano immersi, li spinge a dover manifestare e, quindi, interpretare artificiosamente sia il proprio mondo interno sia le espressioni emotive dell’interlocutore. Uno stile specifico di scrittura o per esempio, gli emoticons, piccole immagini rappresentative di uno stato emotivo di rabbia, dolore, felicità rappresentano il veicolo espressivo odierno e mostrano in realtà come questa generazione cresca senza un fenomeno di rispecchiamento nell’incontro con l’adulto, utile, se non necessario, al riconoscimento e allo sviluppo di un substrato emotivo”.

La famiglia in tutto questo ha un ruolo particolare?
“Sappiamo bene che lo sviluppo emotivo di una persona si fonda inevitabilmente su una base relazionale e affettiva costruita nei primi anni di vita con le proprie figure di riferimento; pertanto, non si può escludere il ruolo relazionale dell’adolescente con la famiglia; tuttavia vorrei anche solo accennare a un’ipotesi: si può pensare che i ragazzi abbiano costruito dentro di sé un apparato emotivo non sufficientemente strutturato che, a causa di un impoverimento psicologico sociale, si trovino nella condizione di utilizzare forme comunicative nuove che li portano progressivamente a ‘dimenticarsene’ per dar spazio ad espressioni alternative di nuova generazione. In questo specifico caso, il divario generazionale si amplifica e diventa plausibile il senso di disorientamento sperimentato dal genitore che si troverà privo di strumenti utili alla costruzione di un dialogo col proprio figlio”.

A cura della Redazione

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