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Wondy e la sua battaglia contro il cancro

28/02/2014

 

«A furia di ghiacciolini al limone e pasta in bianco, sono dimagrita; vista la mia stanchezza cronica, posso “divanarmi” serenamente; se mi faccio un regalo non mi sento in colpa, anzi!».

Vedere il bicchiere mezzo pieno, anche quando si ha il cancro. Grazie a una forza degna di un supereroe, Wondy, protagonista del romanzo autobiografico firmato da Francesca Del Rosso, è riuscita a convivere con quei due “sassolini al seno” e a guarire dalla sua malattia. Abbiamo chiesto all’autrice del libro “Wondy. Ovvero come si diventa supereroi per guarire dal cancro” che ha anche aperto un blog sulle sue chemio avventure di svelarci alcune curiosità. 

Da dove nasce il titolo del libro Wondy?

«”Wondy” nasce dal mio amore spassionato per la supereroina dei fumetti Wonder Woman. Quando ero piccola la adoravo. Quando poi, durante gli anni dell’università, alcuni miei amici mi hanno soprannominato “Wondy” mi ci sono subito affezionata. E poi Wondy ricorda anche il Wonderbra. Ma questo aspetto è da scoprire leggendo il romanzo, quindi preferisco non svelare oltre…».

Nel libro affronta la malattia con ironia, raccontando i “lati positivi” del cancro. Come ha trovato la forza per vedere il bicchiere mezzo pieno?

«Credo che sia qualcosa di innato, tutto merito del carattere. Sono un’ottimista di natura. Soffro, mi piego ma non mi spezzo e per me il bicchiere è sempre mezzo pieno. Il cancro al seno è una malattia, è vero, ma si può curare. Con questa certezza ho affrontato le cure e ho scritto il libro. Per questo vorrei ringraziare le persone che mi sono state vicine e la casa editrice Rizzoli che ha avuto il coraggio di pubblicare un romanzo che tratta con ironia un tema così delicato».

copertina libro "Wondy"Il libro è per lo più ambientato in Humanitas, che lei chiama Rozzangeles…

«Rozzangeles fa da sfondo a tutto il memoir. Lungo i corridoi e nelle sale di attesa si sono accavallati milioni di pensieri e riflessioni sulla mia vita, ma anche sulla morte e la sofferenza mia e di chi mi stava accanto. Nel romanzo racconto l’incontro con i medici e gli infermieri. Colgo l’occasione per ringraziare il dottor Quagliuolo e il professor Klinger, insieme all’intero staff di medici e infermieri dell’Humanitas, che mi ha dato la possibilità di essere curata in un centro all’avanguardia. La chirurgia e la ricostruzione plastica sono stati due aspetti importantissimi e il loro lavoro e la passione che ci mettono ogni giorno mi hanno ridonato il sorriso».

Dall’ottobre 2012 ha avviato un blog sul cancro in cui si è imbattuta nel 2010. Parlarne può essere un buon inizio per reagire?

«Assolutamente sì. Si può parlarne con gli amici, con i parenti ma anche far parte di associazioni ad hoc o contattare servizi di sostegno psicologico. Oppure rivolgersi a forum e blog di pazienti. L’importante è che ognuno trovi la strada più adatta a se stesso e non si rinchiuda a bozzolo. Parlarne fa bene e fa capire che non si è mai soli».

Humanitas, promuovendo il libricino “Mamma voglio che tu stia bene”, ha voluto porre l’attenzione sull’importanza della comunicazione della malattia ai propri figli. Lei in che modo c’è riuscita?

«Credo molto nella sincerità. Non ho voluto nascondere nulla ai miei figli perché credo che i bambini siamo molto intelligenti e soprattutto empatici. Ho spiegato loro che avevo dei sassolini che dovevano togliermi e che le cure mi avrebbero affaticato. Ho preferito non lasciar spazio alla loro immaginazione, ma cercare di far capire che la mamma era stanca, ma che poi sarebbe guarita. E per ora ho mantenuto la promessa».

A cura di Simona Camarda

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