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Quando l’arte va dal dottore

27/06/2003

Curare un’opera d’arte è qualcosa di sorprendentemente simile all’approccio terapeutico della medicina. Ne abbiamo parlato con l’arch. Paolo Mariani, docente di restauro presso il C.F.P. di Cremona, nonché restauratore di consumata esperienza, reduce da un pregevole intervento di restauro (ha recentemente “curato” il Coro ligneo della Basilica di Santa Maria dei Frari a Venezia).

Cosa significa oggi restaurare un manufatto antico?
“In primo luogo vuol dire conservare, cioè prendersi cura dell’”opera d’arte”, fermarne il degrado, intervenire sulla malattia che l’ha causato”.

Dal punto di vista lessicale siamo molto vicini alla medicina…
Non solo a parole. Negli ultimi anni la disciplina del restauro si è appropriata dei metodi di indagine usati in medicina. Ad esempio, la tomografia assiale (T.A.C.), utilizzata per indagare opere mobili in ambito statuario, dà risultati imparagonabili rispetto ad una radiografia tradizionale, che è quasi primordiale rispetto alle tecniche odierne a disposizione.
Grazie alla termografia – usata soprattutto in architettura ma anche con le opere plastiche – siamo in grado di distinguere le differenze dei materiali che costituiscono il manufatto.
Anche il microscopio ottico elettronico è indispensabile per analizzare micro-campioni di tessuto prelevati dall’opera d’arte tramite una specie di biopsia: si può in questo modo conoscere la composizione del materiale, i suoi leganti costitutivi, la percentuale dei componenti allo scopo di comprendere il meccanismo del degrado, l’eziopatogenesi – come dicono i medici – e calibrare un intervento idoneo.
Altri metodi di analisi sul campione contemplano la spettofotometria all’infrarosso, per sondare le componenti del colore, oppure l’utilizzo della microsonda a raggi X.
Tutti questi esami, a parte quelli che prevedono il prelievo di microcampioni, non sono dannosi per le opere e possono essere ripetuti, a scadenze fisse per tenere scientificamente monitorato lo stato di salute delle opere.

Quindi è indispensabile accedere a laboratori specializzati…
Sono diversi i laboratori di ricerca che eseguono analisi per il restauro: i migliori sono quelli universitari o dei C.N.R. Alcuni restauratori si sono attrezzati con apparecchiature proprie, ad esempio con le macchine per i raggi X scartate dagli ospedali perché meno all’avanguardia ma ancora funzionanti. Personalmente ritengo sia meglio, dopo le prime analisi visive ed organolettiche, rivolgersi ai centri specializzati e agli Ospedali. Al C.F.P. di Cremona collaboriamo spesso con gli Istituti Ospedalieri della città.

Possiamo dunque parlare di scienza del restauro?
Direi di sì. Grazie a dati inequivocabili oggi siamo in grado di conoscere senza margine d’errore lo stato di salute di un’opera d’arte, possiamo letteralmente entrare nel manufatto per investigarlo e capire anche le cause che hanno determinato il degrado. In seconda battuta si può programmare un intervento personalizzato e “salvare” l’opera.

Quali terapie sceglie il restauratore?
Dipende naturalmente dal tipo di manufatto, dalla datazione, dall’entità del problema. Per continuare il parallelismo con la medicina, valga per tutti l’esempio della fleboclisi con la quale all’interno delle opere vengono inoculate speciali sostanze conservanti, un ottimo metodo per restituire alla superficie pittorica o al legno alcuni elementi organici che col tempo sono venuti meno. Quindi anche la chimica viene in aiuto ed è un contributo fondamentale nella lotta biologica contro gli insetti xilofagi, o durante le operazioni di pulizia e rimozione di residui, muffe, ecc.

E l’aspetto estetico?
Le procedure di restauro più all’avanguardia suggeriscono che “curare” un’opera d’arte significa soprattutto intervenire sullo stato di degrado per salvare quanto è ancora conservato. In molti, compreso Bruno Zanardi ( noto per avere restaurato Giotto ad Assisi e la Colonna Traiana) sostiene che il miglior restauro è quello che non si vede. In quest’ottica l’aspetto estetico diventa secondario: se prima non si assicura la sopravvivenza del manufatto è del tutto inutile preoccuparsi del suo godimento estetico. Un po’ come in medicina: lifting e pillole della giovinezza sono per chi gode di buona salute.

Esistono dei parametri che garantiscano un’omogeneità d’intervento sul territorio nazionale?
Purtroppo permane spesso un’incomprensione di fondo tra mondo scientifico e mondo operativo in materia di restauro. Il giudizio estetico è ancora un elemento di valutazione preponderante nelle scelte operative. Bisognerebbe invece seguire dei protocolli di intervento, come in medicina.
L’ex ministro dei Beni Culturali Antonio Paolucci diceva che il principale degrado dei beni culturali è da addebitarsi ai restauratori. Il che è tutto dire…

Possiamo parlare quindi di accanimento terapeutico?
Talvolta succede. Esistono casi in cui è meglio lasciare che le opere d’arte muoiano – tra virgolette – di morte naturale. Un conto è “congelare” lo stato di fatto e creare un ambiente asettico, o almeno immune da pericoli come l’umidità, gli sbalzi termici, le aggressioni atmosferiche. Togliere le opere dal loro luogo originario e collocarle in condizioni forzate, sottraendole alla fruizione collettiva, può essere un contro senso, una scelta arbitraria.

Quindi, fermare il tempo non è sempre possibile, neppure per la scienza…
Il tempo è un grande plasmatore, sia per le persone che per le opere d’arte e non è giusto, talvolta non si può, interferire più di tanto. Anche in merito alle analisi microdistruttive, come le biopsie, cioè i prelievi di materiale dalla superficie pittorica o lignea, i pareri sono discordi. Alcuni teorici le mettono in discussione, anche se occorre sottolineare che si tratta sempre di prelievi di un decimo di millimetro di materiale per volta. Generalmente si preferisce optare, almeno in prima battuta, per le analisi non distruttive, come le radiografie, le riflettografie o la fluorescenza UV. Questi metodi ci consentono di sapere molto sul manufatto senza intaccarne la superficie.

Meglio l’allopatia o l’omeopatia per una quadro antico?
Non possiamo negare gli enormi contributi della chimica in fatto di restauro, anche se molte scuole di pensiero sono orientate oggi verso un approccio più “dolce”. Occorre essere cauti nell’utilizzo ad esempio di detergenti aggressivi: si dovrebbe procedere utilizzando sostanze che non comportino processi chimici irreversibili. Dobbiamo sempre agire pensando che i metodi e i materiali utilizzati oggi possano essere perfezionati domani. Chi opererà dopo di noi deve poter rimuovere il nostro intervento e migliorare l’approccio terapeutico.

Anche in materia di restauro prevenire è meglio che curare?
Indubbiamente. Monitorare sistematicamente la salute del nostro patrimonio culturale significherebbe garantirne la sopravvivenza, si eviterebbero interventi pesanti e costosi. Per una buona conservazione delle opere d’arte, l’ambiente è un fattore determinante: anche questa è prevenzione. Gli stress ambientali, come lo stile di vita per gli esseri umani, influiscono pesantemente sulla salute di un dipinto, di una statua, di un edificio. Il restauro può addirittura risultare inutile se poi non si presta attenzione al microclima in cui vive l’opera. In parte anche la “genetica” gioca un ruolo fondamentale. Un esempio: se nell’esecuzione di un affresco l’artista ha seguito i principi e le regole suggerite a suo tempo da Cennino Cennini, è garantito che il dipinto si conservi meglio nei secoli. Ciò rende più agevole la cosiddetta “prevenzione”.
La sempre più diffusa coscienza dell’importanza del nostro patrimonio culturale e artistico ha mobilitato l’attenzione del mondo accademico e operativo: il patrimonio di conoscenze della medicina è ormai un contributo imprescindibile per la salute delle opere d’arte.

A cura di Silvia Merico

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