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Una firma genetica per il tumore al seno

11/02/2003

Le donne con un cancro al seno con particolari caratteristiche genetiche hanno una probabilità più elevata delle altre pazienti di sviluppare metastasi e ricadute. La cosiddetta “firma” genetica del cancro ha quindi un estremo valore sia per l’ammalata sia per il medico che può decidere, a parità di tipo di cancro ma con profili genetici diversi, di scegliere una chemioterapia più o meno aggressiva.

Carta d’identità dei geni cattivi
Lo spiega con dovizia di particolari una revisione pubblicata recentemente sulla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine: gli autori – un gruppo di oncologi olandesi – hanno anche fornito la carta d’identità dei geni “cattivi”, cioè di quelli che promettono una prognosi peggiore. I parametri sono stati applicati sperimentalmente su 295 donne con cancro al seno: il test ha predetto una cattiva prognosi per 180 di esse, molte delle quali non avevano gli elementi di rischio classici, tra cui, per esempio, il fatto che alcune cellule tumorali fossero già arrivate ai linfonodi della regione e dà lì, potenzialmente, in giro per il resto del corpo.

In futuro aiuterà la scelta della chemioterapia più adatta
Dopo dieci anni di osservazione solo il 55 per cento delle donne con tumori con profili genetici rischiosi erano ancora in vita, mentre lo era il 95 per cento di quelle con cancro geneticamente meno aggressivo.
“La tecnica di analisi genetica del singolo cancro non è ancora disponibile su larga scala – spiega il dott. Sergio Orefice, responsabile della sezione di Senologia presso il Dipartimento di Chirurgia di Humanitas – viene al momento usata sperimentalmente in alcuni centri di ricerca. Ovviamente permetterà, quando sarà applicata su tutte le donne, di calibrare meglio la chemioterapia riservando i farmaci più potenti alle pazienti più a rischio, anche se l’attendibilità dei test genetici è ancora tutta da verificare”.
Su questo punto concordano anche i ricercatori olandesi che hanno preso in considerazione ben 25.000 geni e individuato i 70 che sembrano coinvolti nelle forme più aggressive di carcinoma mammario.
E’ importante notare, però, che la scoperta non prevede l’uso di trattamenti nuovi, bensì, semmai, una riduzione di quelli vecchi. “Attualmente tutte le donne fanno una chemioterapia tarata sulla peggiore delle ipotesi, ovvero sulla possibilità che il cancro che hanno avuto e che è stato asportato dal chirurgo fosse il più aggressivo di tutti – spiega chiaramente Laura van’t Veer, una delle autrici della revisione – Con il profilo genetico, invece, si potrà evitare di somministrare un eccesso di sostanze tossiche ad alcune donne”.

Un test poco usato
A parte l’aspetto prognostico, ovvero la possibilità di sapere se e come si guarirà dalla malattia, esiste già anche in Italia il test per i geni BRCA, che provocano, in alcune forme mutate, il cancro della mammella familiare. In questo caso la funzione del test è quella di conoscere con largo anticipo quali sono le donne che si ammaleranno in futuro.
“Il test è poco usato perché quand’anche si scopre che una donna è portatrice del gene non si sa bene cosa fare – spiega il dott. Orefice – Negli Stati Uniti, infatti, in genere si procede alla cosiddetta mastectomia preventiva, ovvero all’asportazione di entrambe le mammelle in donne sane. Una volta tolto l’organo, ovviamente non si rischia più il cancro e si può procedere alla ricostruzione dei seni con la chirurgia plastica, Certamente si tratta di un approccio cruento molto lontano dalla mentalità italiana, che è meno scientifica e più emotiva”.

In Italia è più utilizzato lo studio recettoriale
A disposizione delle malate italiane c’è invece il cosiddetto studio recettoriale, che misura la sensibilità del cancro ai diversi ormoni, in particolare agli estrogeni. “Questo tipo di test viene fatto di routine – spiega Orefice – e ha cambiato negli ultimi anni l’approccio terapeutico al tumore della mammella, consentendo un uso più calibrato della chemioterapia e dei farmaci ormonali che hanno lo scopo di impedire la ricaduta”.

A cura di Daniela Ovadia

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