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Kuki Gallmann, sognando l’Africa con Land of Hope

26/10/2012

Da 40 anni vive in Africa, dove ha creato un’oasi naturale ormai unica in tutto il continente. Insieme alla figlia, aiuta la popolazione locale attraverso la fondazione che ha creato in memoria del marito e del figlio, scomparsi a distanza di pochi anni l’uno dall’altro. Autrice di romanzi di successo mondiale, ci parla di “Land of Hope”, la sua ultima iniziativa umanitaria

Kuki Gallmann ha 69 anni, è nata a Treviso ma da 40 vive in Kenia, che oggi, come dice lei, è la sua prima patria. Insieme alla figlia Sveva gestisce la Gallmann Memorial Foundation un’organizzazione dedicata al marito e al figlio – scomparsi in Africa nel 1980 e nel 1983 – che si occupa della salvaguardia dell’ambiente keniano e del sostegno alle comunità che vi abitano. L’ultimo progetto messo in campo dalla GMF si chiama “Land of Hope” (Terra della speranza) e si pone l’obiettivo di migliorare la qualità della vita delle famiglie rurali più svantaggiate e dei loro bambini. Kuki Gallmann è anche una scrittrice di successo. Tra i suoi romanzi, scritti in inglese, il più noto è “Sognavo l’Africa”, da cui è stato tratto il film “Sognando l’Africa” diretto nel 2000 da Hugh Hudson e che ha come protagonista Kim Basinger.

Signora Gallmann, ci vuole parlare del progetto “Land of Hope”?

«L’idea che sta alla base di questo progetto è quella di creare un centro di educazione e formazione a beneficio delle popolazioni keniane locali, in cui vengano toccati tutti i campi di conoscenza possibili, scelti tra quelli che abbiano rilevanza rispetto al luogo e alla cultura di queste popolazioni. Con lo scopo finale di migliorarne le loro condizioni di vita, diminuire il crimine, il bracconaggio e il degrado ambientale in cui spesso sono costrette a vivere».

Al centro del progetto ci sono due bisogni primari come l’istruzione e l’assistenza sanitaria di base. Quanto sono importanti questi due elementi per la crescita e l’emancipazione di un’intera popolazione?

«Sono importantissimi entrambi, ma io metto in primo piano l’educazione, che è la priorità principale, quella da cui poi dipende tutto il resto, compresa la salute».

Per quanto riguarda l’istruzione, quello che dovete affrontare è più un problema di strutture o più una questione di organizzazione e di qualità degli insegnanti locali?

«Dobbiamo risolvere entrambe le situazioni. Anche se può sembrare strano, creare le infrastrutture è più semplice, anche se molto costoso. Quello della qualità degli insegnanti, degli assistenti sociali e dei componenti dello staff sarà il punto su cui dovremo in verità concentrarci al massimo perché è a questo che è legato il successo dell’intero progetto. La cosa più difficile sarà riuscire a garantire a lungo termine stipendi adeguati e capaci di attirare gente di qualità. Dovremo cercare, in sostanza, di rendere “Land of Hope” sostenibile anche nella sua gestione ordinaria, quando sarà finita la fase di costruzione, di formazione e di equipaggiamento del personale. Il problema sono, come sempre, i costi di esercizio a lungo termine: non sarà facile avere la certezza di disporre in ogni momento dei fondi necessari per mantenere in vita la macchina organizzativa che abbiamo in mente».

Parliamo di assistenza sanitaria. Nel 2006 la Gallmann Memorial Foundation ha realizzato ed equipaggiato una clinica locale modello e un centro per la salute. È difficile portare, in popolazioni che spesso non ce l’hanno, una cultura dell’igiene e della salute?

«è praticamente impossibile, dal momento che l’acqua è vitale all’igiene e qui non ce n’è abbastanza. Ce n’è poca, di acqua, e quella che c’è viene usata per bere o per cucinare, non per lavarsi. Qui la popolazione aumenta in modo smisurato, grazie anche alla poligamia, e la propagazione delle malattie è all’ordine del giorno. Per questo dico che l’educazione per queste popolazioni è vitale, ma so benissimo che non è facile educare i pastori nomadi, che non sono abituati a sottostare a certe regole. La clinica che abbiamo regalato alla comunità serve soprattutto per questioni legate alla maternità e, periodicamente, ospita medici volontari per operazioni più complesse, soprattutto oftalmiche, per le quali ci siamo dotati delle attrezzature occorrenti. Ma abbiamo sempre bisogno, per tutto questo, di medici che prestino gratuitamente la loro opera, mi piacerebbe vedere sempre più anche medici che vengono dall’Italia per darci una mano».

La Fondazione da lei creata ha messo in atto anche decine e decine di progetti tesi a valorizzare il territorio e le popolazioni che vi vivono. Quali risultati avete ottenuto? Si ritiene soddisfatta di quanto è stato da voi fatto finora e degli effetti ottenuti?

«Il risultato più tangibile, visibile e utile è essere riusciti a conservare intatto – nonostante la tragedia del bracconaggio, ben più complessa di quanto appaia – un grande pezzo d’Africa, un polmone con foreste, sorgenti, laghi, savana e animali selvatici. Ol ari Nyiro (il “posto delle acque scure” in lingua masai, ndr) è ormai un luogo unico, non solo in Kenya ma in tutta l’Africa. Qui la natura è regina e la foresta non è di cemento, come accade ormai in tanta parte del Kenya. Naturalmente non sarebbe possibile mantenere tutto ciò se non ci fosse il continuo sostegno prestato alle varie comunità tribali che ci circondano».

E tra tutti i settori di cui vi occupate – dalla salvaguardia ambientale agli aspetti culturali, pedagogici, artistici, dall’attenzione per la salute pubblica a quella per gli strumenti di sussistenza – quali vi hanno dato finora maggiore soddisfazione e quali pensate di sviluppare maggiormente in futuro?

«Tutti questi piani sono inestricabilmente legati l’uno all’altro. è impossibile concentrarsi solo su un aspetto, perché sono interdipendenti tra loro. Ambiente e cultura, gente e natura devono coesistere in mutuo rispetto».

Come medici e volontari danno una speranza all’Africa insieme a Land of Hope

Leggi il racconto del dott. Luca Malvezzi, specialista di Humanitas.

Torniamo al progetto “Land of Hope”. Quali tempi vi siete prefissati per la sua attuazione?

«La prima fase, la costruzione della scuola materna e del centro professionale, con cucine e servizi igienici è praticamente finita. Il pozzo artesiano è ormai funzionante. Si tratta ora di rifinire e attrezzare le costruzioni e di costruire le abitazioni per lo staff. Dobbiamo al più presto cominciare i colloqui per scegliere i nostri collaboratori e organizzare eventi che permettano di familiarizzare il progetto con le comunità che potranno goderne. Solo dopo queste operazioni potremmo avvero prevedere la data di inaugurazione».

Avete ricevuto o pensate di ricevere aiuti dalle autorità keniote o da privati cittadini che vivono nelle città? Oppure aiuti provenienti dall’estero, magari anche dall’Italia?

«Gli aiuti esterni sono vitali per progetti come il nostro. Mia figlia e io abbiamo comperato privatamente il terreno posto al nostro confine – vasto circa 150 ettari – e deciso di dedicarlo a un progetto che porti aiuto alla popolazione locale: per i bambini (educazione, anche alternativa: musicale, artistica, ecc., e salute), per le donne (formazione professionale e igiene) e, in particolare, per i giovani disoccupati, senza educazione e senza futuro, che rappresentano un pericolo per la stabilità dell’intero Paese (formazione professionale e workshop). Stiamo anche costruendo una struttura dove possano essere praticati sport come l’atletica leggera, il calcio, la pallavolo, ecc. Ma, ovviamente, da sole non riusciremo mai a farcela e gli aiuti esterni sono essenziali e benvenuti. Gli amici Italiani di “Maisha Merefu” hanno spontaneamente contribuito con estrema generosità al sogno di “Land of Hope”. Senza di loro la costruzione del complesso, che è praticamente terminata, non si sarebbe mai materializzata».

Da profonda conoscitrice della realtà africana, quale futuro vede per il Kenia, in particolare, e per l’intero continente africano, in generale? Ci sono segnali che la inducono a vedere le cose con ottimismo?

«Questa è una domanda molto complessa. Il pericolo per il Kenia, per l’intera Africa, ma anche per tutto il pianeta è l’aumento della popolazione, che provoca la mancanza di lavoro per tutti, la mancanza di infrastrutture e l’invasione delle aree naturali, con conseguente cambiamento di usi tradizionali, perdita di biodiversità, e tragico degrado ambientale. La distruzione indiscriminata delle foreste e della boscaglia per far posto a piccole aziende agricole di sussitenza ha portato al surriscaldamento globale. Questo genera variazioni climatiche estreme, le cui tragiche conseguenze sono sentite di più da coloro la cui sopravvivenza dipende da un clima stabile e relativamente prevedibile: gli agricoltori e i pastori. Periodiche carestie e inondazioni sono – e ahimè lo saranno sempre più, nel prevedibile futuro – inevitabili. E saranno sempre di più i conflitti civili, mascherati da problemi tribali per accesso ad acqua o pascoli, ma in realtà prevalentemente causati da manovre politiche prima delle varie elezioni. Il pianeta ha visto, sta vedendo e vedrà un susseguirsi di catastrofi naturali che avvengono e continueranno ad avvenire con frequenza e violenza senza precedenti. Io credo che sarà proprio il dover fronteggiare questi drammi naturali – che non fanno distinzioni tra religione, etnia, livello sociale, sesso, scelta politica – il fattore che alla fine ci riunirà tutti, che ci farà andare oltre quello che solitamente ci divide».

Signora Gallmann, noi italiani siamo orgogliosi per quanto lei fa per l’ambiente e le popolazioni africane. E la ringraziamo per averci raccontato in modo così diretto e schietto – nei suoi bellissimi romanzi – la sua avventurosa vita, ricca di tante soddisfazioni ma anche provata da momenti molto difficili. Ci dica la verità, a 40 anni di distanza da quando decise di cambiare vita, lei si sente oggi più italiana o più keniota?

«Amo l’Italia, certo, ma mi sento Keniota, senza alcun dubbio. È stata una decisione cosciente, quella di vivere in questo meraviglioso e difficile Paese, che non riguarda solo la scelta di un passaporto piuttosto che di un altro…».

 

a cura di Luca Palestra

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