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Prevenzione

Alzheimer, il ping pong uno sport contro la demenza?

03/10/2016

Due racchette, un tavolo diviso a metà da una rete e due, o quattro giocatori. Giocare a ping pong può aiutare a tenere lontana la demenza o a contrastare il declino cognitivo nelle persone colpite dalla malattia di Alzheimer? Secondo una organizzazione benefica inglese sì: il tennis tavolo può contribuire a mantenere vivo il cervello, ma non solo.

La onlus benefica si chiama Bounce Alzheimer’s Therapy (BAT) e promuove la diffusione di una pratica che potrebbe giovare alle persone affette da demenza. Ha ideato un particolare programma che prevede la fornitura di tavoli speciali da ping pong, l’equipaggiamento necessario e un piano di addestramento del personale delle case di cura per persone anziane o affette da malattia di Alzheimer. La sua idea è stata raccontata anche dal documentario della Bbc “How to stay young”, ovvero ‘come restare giovani’.

Secondo l’ultimo Rapporto Mondiale sull’Alzheimer, rilasciato in occasione della Giornata Mondiale Alzheimer, lo scorso 21 settembre, la demenza colpisce 47 milioni di persone in tutto il mondo, un numero destinato a triplicarsi entro il 2050. Secondo Andrew Battley, direttore di BAT, solo nel Regno Unito ritardare l’insorgenza dell’Alzheimer di 5 anni potrebbe salvare fino a 30mila vite l’anno.

Ma perché il ping pong farebbe bene?

Per la onlus, che collabora con il King’s College London, questa “terapia” può migliorare la coordinazione oculo-manuale, stimolare l’ippocampo, rinforzare la memoria a lungo termine, rallentare il declino cognitivo, sostenere le abilità motorie e consolidare l’equilibrio. Il ping pong, inoltre, combina esercizio fisico e sollecitazione delle abilità mentali. Inoltre si gioca con almeno un’altra persona, quindi stimola anche i legami sociali.

(Per approfondire leggi qui: “Leggere a tutte le età mantiene alta la capacità di concentrazione”, vero o falso?)

«È oramai scientificamente provato che si possa allenare il cervello a restare giovane e prendersi cura del cervello – durante tutto il corso della vita cioè fin da giovani – perché invecchi bene», afferma la dottoressa Elisabetta Menna, ricercatrice di Humanitas e dell’Istituto di Neuroscienze del Cnr.

«Una conferma viene anche dai risultati di uno studio tutto italiano “Train the brain”, condotto dagli Istituti di neuroscienze e fisiologia clinica del Cnr, dall’Accademia dei Lincei e dall’Università di Pisa. Lo scopo di questo studio era verificare la possibilità di rallentare la progressione della demenza mediante percorso combinato di esercizi fisici (attività fisiche aerobiche) e di training cognitivi (attività intellettuali, musicali e ludiche). I risultati, nel tempo, hanno dimostrato un miglioramento della funzionalità cerebrale e vascolare, tra cui un aumento dell’afflusso sanguigno nel cervello e una miglior risposta cerebrale a compiti impegnativi nei pazienti coinvolti nel percorso dei trattamenti fisici e intellettuali».

«Alla base di questi risultati – prosegue la specialista – vi è l’evidenza scientifica che il cervello dell’anziano sano, ma anche quello nelle fasi iniziali di malattia, mantiene una certa plasticità e alcune capacità di recupero e riadattamento che viene anche chiamata dagli specialisti “riserva cognitiva”. Questa preziosa riserva può essere facilitata da un esercizio fisico regolare, dal tenere la mente attiva, dal mantenere rapporti sociali».

(Per approfondire leggi qui: Cervello, ecco i 7 cibi che aiutano la memoria)

Il gioco del ping pong risponde in effetti a tutti questi requisiti

«Si tratta di una attività aerobica, ludica, che richiede concentrazione a abilità oculo-motorie. Inoltre queste riflessioni offrono lo spunto per discutere un aspetto molto importante: gli effetti benefici di queste attività hanno anche una enorme valenza di prevenzione non solo di cura e forniscono gli elementi per stilare un vademecum, o perlomeno raggiungere una consapevolezza sui buoni comportamenti da tenere per tutto il corso della vita non soltanto nella terza età o quando ci troviamo a fronteggiare una patologia», conclude la dottoressa Menna.

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