Stai leggendo Quando il pesto non esisteva

Alimentazione

Quando il pesto non esisteva

18/03/2004

Stretta fra collina e mare, la Liguria ha dovuto fare grandi sforzi di fantasia per creare prodotti che oggi sono di nicchia. La cucina ligure, e soprattutto genovese è tutt’altro che povera ; non solo erbette ma il sapiente uso di quanto la natura e il commercio potevano fornire hanno dato vita ad una tradizione davvero singolare. Lasciandoci guidare da Paolo Lingua e dal suo libro La cucina dei genovesi, scopriamo che “il pomodoro entra nella cucina genovese solo nei primi anni del XIX secolo”, mentre sembra che la parola fine sia stata posta alla disputa sulla pasta. Nel 1244, in data 2 agosto “rogante il notaio Gianuino de Predono il medico bergamasco Ruggero di Bruca s’impegna, in cambio di sette lire genovesi, a guarire il lanaiolo Bosso da una noiosa malattia del cavo orale”. Il medico ordina di non assumere certi cibi tra i quali “pasta lissa”, ovvero “pasta lessa”. E’ una citazione, forse la prima , che riguarda un alimento principale della tradizione genovese.
Orti, campi e alberi da frutto extra moenia, ovvero fuori dalla cinta delle mura; i genovesi ne avevano di che sfamare anche il popolo di passaggio, mercanti e soldati che attraversavano il territorio. Esperti nell’arte della conservazione, appresa dai Mongoli di Gengis Khan, iniziano a essere conosciuti per la particolarità del piatto unico: la famosa pasta, in tutte le forme, con verdure e salse di vario tipo, tra le quali il non ancora celebrato pesto, ma una “salsa a base di pinoli e di formaggio fresco e acidulo, forse lo yogurt conosciuto nel Mar Nero”. Influsso orientale, nel condimento, ma vino locale, anche se Diodoro Siculo nel I secolo a.C. afferma che “la Liguria è inaccessibile a Cerere e Bacco”; come dire che il vino non era granché. Tuttavia, in area prettamente genovese dove era coltivato, troviamo ampie tracce nella toponomastica in alcuni paesi del basso Piemonte: Vignole, ovvero ad vinoleas.
La tavola di bronzo del Polcevera, oggi conservata a palazzo Tursi, sede del comune, è il più antico documento storico, del 117 a. C.: vi si parla di un debito compensato in natura con prodotti della terra, fra cui il vino.
Capitava che le scorte per uso liturgico risultassero finite, e questo ci dice la scarsità del prodotto. Ma, nota l’autore, a Genova per il cittadino di tasca fornita, non c’è nulla di buono e ottimo che non possa essere acquistato e dispensato con larghezza anche alle chiese.

Per l’olio i genovesi spendevano delle ingenti somme, acquistando “massicce partite di nocelle di Napoli e cubelle di Salerno” per ottenere olio commestibile, anche perché il “butirro” sulla tavola genovese non compare mai. L’introduzione benedettiva della cultura dell’olivo segna la comparsa dell’oliva “taggiasca” (detta “lavagnina”, quando è trapiantata sui colli del Levante), diffusa nelle province di Savona e Imperia anche se si svilupperà in epoca successiva alle crociate.

Per secoli la Liguria fu indicata come le “pays où fleurit l’oranger”, espressione poetica appropriata; con i genovesi inizia la diffusione del melangolo (arancia amara e non maturata) e dei cedri canditi, i giardini erano ingentiliti da glicine e mimosa ma rigogliosi di agrumi. Confetti e cioccolata: la storica casa di Romanengo a Genova conserva le mole e i rulli di pietra dove il cioccolato veniva lavorato a sfoglia e dove continua una produzione artigianale. Una curiosità: la cioccolata si consumava calda e non rompeva il digiuno quaresimale, anzi veniva adoperata al posto del vino. Il capitolo dei dolci, con gli influssi arabo-persiani, tira in campo lo zucchero, del quale i genovesi con i veneziani furono monopolisti. Lo zucchero di canna (l’unico conosciuto sino al XVIII secolo) sembra certo che sia originario delle coste del Bengala. Gli estratti della pianta erano noti nella medicina persiana nei sui estratti, lo zucchero in cristalli e l’acqua di zucchero. Introdotto a Bisanzio, lo zucchero decretò la fine del miele; lo troviamo in Siria e a Cipro, dove iniziano le coltivazioni da parte degli intraprendenti Lusingano, signori dell’isola e poi dei Cornaro. Con la scoperta dell’America la coltivazione della canna si sposta a Madera, poi nelle Canarie, isole caraibiche, Antille e Brasile, con un fitto scambio con i grossisti portoghesi.

E il pesce? Storioni e caviale, ma soprattutto “pesce azzurro” che si adattava alla conservazione; si trova assai raramente il garum, la salsa “micidiale” di pesciolini fermentati con erbe, aromi, spezie e aceto. Il merluzzo atlantico è monopolio dei porti di Le Havre e Genova; in generale l’esposizione del pesce durava, negli appositi spazi, dall’alba a mezzogiorno. Singolare la pena per il dettagliante sorpreso a vendere pesce vecchio; una multa ingente e tratti di corda. Se era donna, veniva frustata… sulle natiche scoperte, fra il dileggio del popolino. Dagli studi di Laura Balletto, studiosa di paleografia, scopriamo il manuale Medicinalia quam plurima; scritto a più mani tra XV e XVI secolo, raccoglie note di medici, stranieri, genovesi e non: prescrizioni mediche e igieniche, nozioni di fitoterapia, oltre che ricette per “soddisfare il più gagliardo appetito”. Mentre un capitolo a parte meritano le prescrizioni per il vitto di bordo delle galee dove gli alimenti di base erano vino, biscotti, pesce salato e animali domestici vivi (fra cui maialini, quaglie, anche vitelli), spezie. Sulle spezie il capitolo da aprire sarebbe lungo; si segnala che per l’uso farmaceutico e medicinale erano impiegate l’aloe (cetrino, patico e cavallino) dell’isola Soko’tora e in seguito della Spagna come purgante; il balsamo di Matarea per le imbalsamazioni, incenso, canfora, cannella, noce moscata, garanza (pianta erbacea delle Rubiaceae dalle cui radici si estraeva l’alizarina), il legno di sandalo, il muschio… Le spezie servivano come aggiuntivo o sostitutivo della paga e l’annalista Caffaro riporta una curiosità: i soldati che nel 1101 espugnarono Gerusalemme, ebbero anche due libbre di pepe in dono, oltre al compenso in denaro.

La cavalcata tra le curiosità legate al mondo della cucina ligure si deve necessariamente percorrere al galoppo! Troppe le notizie e le curiosità che si scoprono nelle pagine del professor Lingua; si può almeno menzionare che, oltre che alla cucina, i Genovesi erano molto attenti alla tavola: gli inventari delle suppellettili lasciano immaginare un corredo ricco, dove si maneggiava con disinvoltura l’argento. La grande cucina della mensa dell’arcivescovo, del doge, dei nobili e dei ricchi mercanti; quella meno elaborata del popolo la dicono lunga sugli intrecci fra vita economica e di costume. Una rarità è la ricetta di lasagne trascritta per caso in un manuale di mercatura di Saminiato de’ Ricci redatto a Genova nel 1417; della cucina di un ramo degli Spinola, una delle quattro grandi famiglie con Doria, Grimaldi e Fieschi, durante un soggiorno romano rimane il resoconto del maestro di casa dal titolo “Spese di cucina in Roma” che permette la ricostruzione delle abitudini patrizie nel 1748.
Frittelle e focacce, farinata, pesto e pansotti, stoccafisso, torta pasqualina, meringhe e pandolce, la cuciniera genovese offre ricette dal sapore inconfondibile.
Per apprezzarle basta documentarsi sulla loro storia, ricca di aneddoti. Questo aiuterà a sfatare i luoghi comuni che hanno imprigionato la cucina, la cultura e il ruolo di Genova. Da riscoprire in questo anno di celebrazioni culturali.

PAOLO LINGUA La cucina dei genovesi
GIOVANNI BATTISTA e GIOVANNI RATTO Cuciniera genovese
ROMANO FUGALI-MARISA SCOTTI Pranzi e conviti a Genova alla fine del Quattrocento

A cura di Cristina Borzacchini

Articoli che potrebbero interessarti

Non perderti i nostri consigli sulla tua salute

Registrati per la newsletter settimanale di Humanitas Salute e ricevi aggiornamenti su prevenzione, nutrizione, lifestyle e consigli per migliorare il tuo stile di vita