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Benessere

Gravidanze sicure con la diagnosi prenatale

14/05/2002

In epoca di “natalità zero”, far nascere un bambino è un’esperienza assolutamente unica, bella e affascinante per qualsiasi donna: anche per quelle che hanno già vissuto almeno una volta l’avventura della maternità. Ecco perché ogni gravidanza assume un valore, irripetibile, addirittura “sacro”, una di quelle esperienze da curare e seguire, giorno per giorno, in tutti i suoi aspetti. Senza lasciare nulla al caso. Ecco perché, per ridurre al minimo i rischi, diventa fondamentale affidarsi alla diagnosi prenatale e ad un ginecologo preparato e soprattutto… umano. Tutti i dubbi nelle risposte del dottor Stefano De Marinis, ginecologo di Humanitas ed esperto di diagnosi prenatale. Ecco la prima parte dell’intervista.

Qual è l’attendibilità e la precisione che una donna può avere nei confronti di questi test? Come si può, oggi, monitorare e controllare una gravidanza nelle sue diverse fasi?
“Questi test devono fornire risposte chiare e precise alle donne in attesa”, risponde il dottor De Marinis. “Sono test di screening o diagnostici che, se la donna in gravidanza lo desidera, possono essere eseguiti in centri specialistici adeguati e autorizzati proprio per evidenziare anomalie della gravidanza. Tocca poi al ginecologo stabilire una scelta di tempi appropriata per farli. “La diagnosi prenatale ha lo scopo primario di accertare precocemente le anomalie cromosomiche che sono diverse dalle malattie genetiche ereditarie: queste ultime, infatti, sono a carico di entità geniche spesso sconosciute, di solito non indagabili se non dopo apposita consulenza genetica”.
“Una prima fondamentale distinzione nella diagnosi prenatale – aggiunge De Marinis – va fatta tra test di screening non diagnostici e diagnosi prenatale vera e propria: nel primo caso si tratta di test non invasivi, innocui per la madre e il feto, la cui risposta non diagnostica viene espressa soltanto in termini di percentuale di rischio; nella diagnosi prenatale vera e propria, si esegue un prelievo invasivo, con un minimo rischio di abortività, su materiale cromosomico fetale ottenuto – secondo i casi – da liquido amniotico, da villi coriali o da sangue fetale. E’ evidente che, anche nel primo caso, di fronte ad una risposta di rischio aumentato esitata appunto dal test di screening – translucenza nucale, test biochimico o la combinazione dei due – la diagnosi va poi eseguita con una metodica invasiva”.

Qual è il ruolo dell’ecografia nella diagnosi prenatale?
“L’ecografia è un’indagine non invasiva, innocua per il feto e la gestante, che si basa sulla visualizzazione di immagini di tessuti ottenute dalle eco di onde sonore ad alta frequenza. Risulta pertanto fondamentale per poter visualizzare embrione, fin dalla sesta settimana di gestazione, ma anche per lo studio della forma e dei ritmi di accrescimento del feto, della placenta e del liquido amniotico. Una gravidanza a decorso regolare necessita di tre ecografie: al primo trimestre per stabilire con certezza la data di inizio della gestazione; intorno alla ventesima settimana, per verificare la morfologia fetale; al terzo trimestre, intorno 30-32 settimane, per valutare l’accrescimento”.

Ma qual è il livello di precisione diagnostica dell’ecografia?
“Alcune anomalie sfuggono all’indagine ecografica o si evidenziano solo tardivamente” puntualizza il dottor De Marinis. “L’ecografia è stata anche chiamata in causa come utile strumento nei test di screening delle anomalie cromosomiche. Occorre ricordare che tutte le donne presentano un certo rischio che il proprio feto sia affetto da un’anomalia cromosomica. E il rischio è direttamente proporzionale all’età materna per molte anomalie cromosomiche, come per esempio la “Trisomia 21” o sindrome di Down, la “Trisomia 18” o la “Trisomia 13”. Però, per altre anomalie cromosomiche il rischio rimane inalterato e non dipende dall’età materna: mi riferisco in particolare, alla “Sindrome di Turner” e alla “Triploidia”. Molte gravidanze anomale non vanno avanti e si interrompono con aborti spontanei, in quanto incompatibili con la sopravvivenza. E’ questo il motivo per cui il rischio di un’anomalia cromosomica in generale si riduce con il progredire della gravidanza. Ciononostante esistono anomalie cromosomiche compatibili con la vita, tra le quali la più nota e frequente è rappresentata dalla “Sindrome di Down”.

Quali sono le percentuali per cui una donna possa partorire un bambino affetto da questa sindrome?
“Il rischio che una donna di 20 anni abbia un bimbo Down è di circa 1/1500; a 30 anni è di 1/900; a 32 anni è di 1/650; a 35 anni è di 1/350; a 37 anni è di 1/220; a 40 anni è di 1/100 e così via. Ma, per una donna che abbia già avuto un bambino affetto dalla medesima sindrome, il rischio di ricorrenza è dello 0,75 % più alto rispetto al rischio di base calcolato in percentuale per età materna”.

A cura di Umberto Gambino

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