Stai leggendo Gravidanze più sicure per chi soffre di trombosi, ridotti i rischi di aborto

Benessere

Gravidanze più sicure per chi soffre di trombosi, ridotti i rischi di aborto

06/03/2012

Dalla ricerca al letto del paziente. Una nuova cura contro trombosi e aborti ricorrenti: è la prospettiva di uno studio pubblicato sul “Journal of Autoimmunity” che apre nuove possibilità contro una malattia autoimmune, la sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi (APS), ritenuta causa di aborti ricorrenti.

Una nuova cura contro trombosi e aborti ricorrenti? E’ la “promessa” di uno studio pubblicato sul prestigioso Journal of Autoimmunity che apre nuove prospettive contro una malattia autoimmune, la sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi (APS), responsabile di trombosi e aborti ricorrenti. Nei pazienti affetti da questa malattia, infatti, sono presenti autoanticorpi prodotti per errore dal sistema immunitario che riconoscono e attaccano molecole normalmente ignorate dalle difese di una persona sana. Questi autoanticorpi attivano meccanismi di malattia che causano circa un terzo degli aborti ricorrenti in donne in cui non è possibile evidenziare altre cause note. Con un importante impatto psicologico e un significativo costo socio-sanitario legato alla gestione delle complicanze che la malattia provoca (gestosi e pre-eclampsia). E le terapie attualmente disponibili consentono di portare la gravidanza a termine nell’80 per cento dei casi, ma nel restante 20 per cento non funzionano o non sono applicabili a causa di importanti effetti collaterali. Da qui l’influenza dello studio, che “sposta” la logica dell’orientamento terapeutico e che approfondiamo con uno degli autori, Massimo Locati, Capo del Laboratorio di Biologia dei Leucociti all’Istituto Clinico Humanitas e docente dell’Università degli Studi di Milano, e con Lidia Rota, responsabile del Centro Trombosi di Humanitas e Presidente di ALT- Associazione per la lotta alla trombosi e alle malattie cardiovascolari.

Professor Locati, a quali nuove acquisizioni ha portato questo studio?

“In primo luogo ci ha insegnato un aspetto della patogenesi di questa malattia che non conoscevamo. Sappiamo da tempo, infatti, che nelle pazienti affette da APS gli autoanticorpi attivano processi infiammatori e, ritenendo che questo fosse il solo meccanismo alla base della malattia, abbiamo impostato sul suo controllo le strategie terapeutiche attualmente disponibili. Mediante analisi di tipo genomico questo studio ha, invece, dimostrato che la componente infiammatoria non è il solo processo coinvolto, ma che l’attivazione di alcuni recettori di membrana da parte degli autoanticorpi stessi è in grado di influenzare direttamente alcune molecole essenziali alla normale crescita del feto. Questo aspetto suggerisce, quindi, di porre al centro di possibili strategie innovative per il trattamento della malattia non il controllo dei meccanismi infiammatori, ma il blocco dell’attivazione di questi segnali. Proprio in questo senso lo studio offre un secondo importante contributo, in quanto ha portato alla identificazione di un peptide, un frammento di proteina analogo a parte della molecola bersaglio della risposta autoanticorpale, che è in grado di impedirne il riconoscimento da parte degli autoanticorpi stessi. Il blocco del riconoscimento previene l’attivazione dei recettori e l’induzione delle alterazioni placentari che interferiscono con la normale prosecuzione della gravidanza. Questo studio propone di esplorare una nuova via, passando dagli approcci convenzionali volti a meglio controllare gli effetti infiammatori indotti dagli autoanticorpi ad un nuovo approccio volto, invece, a prevenirne del tutto l’attività. In un certo senso abbiamo spostato la logica stessa dell’orientamento terapeutico dal trattamento dei sintomi ad una forma di prevenzione”.

Quali reali prospettive terapeutiche apre?

“Il nostro studio ha dimostrato che il peptide è efficace nel ridurre il rischio di perdita fetale in un modello sperimentale. Questi risultati dovranno ora essere ulteriormente sviluppati prima che se ne possa eventualmente valutare l’applicazione all’uomo. Tuttavia, questa classe farmacologica è stata in passato frequentemente trasferita all’uomo con buoni risultati terapeutici e senza importanti effetti collaterali. Siamo, quindi, ottimisti che questa scoperta possa aprire nuove prospettive terapeutiche per il trattamento di quel 20 per cento di donne affette da APS per cui la cura attualmente in uso non funziona”.

Dottoressa Rota, che cosa hanno a che fare gli anticorpi con la trombosi?

“L’equilibrio del sistema della coagulazione del sangue di ciascuno di noi dipende dalla proporzione fra pro e anticoagulanti, quindi fra i fattori che inducono il sangue a cambiare stato fisico e a trasformarsi da liquido a gel e quelli che governano questo sistema in modo che la coagulazione si arresti a tempo debito. Questi elementi sono prodotti secondo i codici ricevuti dai nostri genitori: alcuni ereditano un sistema perfetto, altri uno leggermente difettoso, sbilanciato in senso procoagulante. Se sul piatto della bilancia salgono ancora altri fattori, come appunto gli anticorpi antifosfolipidi (anticardiolipina, antibeta 2 glicoproteina, LAC o anticoagulante lupico), il sistema perde il controllo e il sangue coagula a sproposito, provocando trombosi nelle arterie, nelle vene o addirittura nei capillari del microcircolo. E veniamo alla trombosi in gravidanza. La madre nutre il feto attraverso la placenta, un cuscino ricchissimo di vasi che ha lo scopo di fornire a un organismo in rapidissimo accrescimento, quindi esigente, sangue fluido e ricco di sostanze indispensabili. Se in questo microcircolo si verificano trombosi, il nutrimento non arriva a destinazione e il feto non sopravvive. Non a caso la terapia antitrombotica, con farmaci antiaggreganti o anticoagulanti o una combinazione dei due viene spesso utilizzata in donne con poliabortività nelle quali gli anticorpi antifosfolipidi siano presenti. Ma attenzione, per confermare la presenza di questi anticorpi non basta un prelievo di sangue, ma vanno eseguiti test su due prelievi a distanza di almeno 120 giorni uno dall’altro”.

A cura di Lucrezia Zaccaria

Articoli che potrebbero interessarti

Non perderti i nostri consigli sulla tua salute

Registrati per la newsletter settimanale di Humanitas Salute e ricevi aggiornamenti su prevenzione, nutrizione, lifestyle e consigli per migliorare il tuo stile di vita