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Alimentazione

La dieta mediterranea combatte le infiammazioni

23/01/2013

Le influenze dell’alimentazione sulle infiammazioni sono molteplici. Numerosi studi si occupano di come ciò che mangiamo agisca sul nostro sistema immunitario, come sottolinea il professor Carlo Selmi.


La ricerca si è occupata molto (e continua a farlo) del legame tra alimentazione e infiammazione. Sono stati condotti numerosi studi in questo senso, ma il professor Carlo Selmi, responsabile della sezione di Reumatologia e Immunologia Clinica dell’Istituto Clinico Humanitas e docente dell’Università degli Studi di Milano, sottolinea che gli studi più solidi sono quelli su larga scala o che coinvolgono ampi database di popolazione. Ne è un esempio la rassegna sistematica degli studi noti dedicati agli effetti di frutta e verdura sulle malattie infiammatorie. L’articolo, pubblicato sullo European Journal of Nutrition, è un esempio di come la ricerca clinica e di laboratorio fornisca dati importanti ma non esaustivi. Qualche esempio: per quanto riguarda il diabete di tipo II, patologia strettamente correlata all’alimentazione, i dati in possesso sono nell’ordine della probabilità mentre nel caso delle malattie infiammatorie croniche distinguiamo i dati relativi alle patologie che interessano l’intestino e quelli concernenti l’artrite reumatoide. Nel primo caso i dati umani sono insufficienti, nel secondo siamo ancora nel campo delle possibilità.

La dieta mediterranea e l’artrite reumatoide

Possiamo prendere a modello l’artrite reumatoide: patologia infiammatoria cronica piuttosto diffusa (0,5-1% della popolazione) che colpisce le articolazioni ma non solo, diagnosticata soprattutto nelle donne e generalmente nei giovani adulti. Sono stati condotti due studi su pazienti affetti da questa patologia: il primo suggeriva loro di seguire la dieta mediterranea tipica dell’isola di Creta (in cui l’olio di oliva è pressoché l’unica fonte di grassi); il secondo si basava sempre sulla dieta mediterranea, ma prevedeva alcune lezioni settimanali di educazione a questo tipo di alimentazione. Dai risultati è emerso che in entrambi i casi i pazienti avevano un miglioramento della sintomatologia dolorosa che è piuttosto invalidante in questa malattia; i pazienti del secondo gruppo però segnalavano anche una riduzione della disabilità, intesa come maggior autonomia nel condurre la vita quotidiana.

Gli alimenti trigger

Per quanto importanti, gli studi di questo tipo hanno tuttavia dei limiti; non di rado capita che si osservino evidenze opposte, ne è un esempio il caso del caffè: bevanda che, a fronte di numerosi effetti positivi riscontrati in studi di laboratorio è anche alimento trigger, capace di scatenare dolore in alcuni pazienti affetti da artrite reumatoide. Si è osservato infatti che alcuni soggetti provano dolore in seguito all’assunzione di alcuni alimenti, si tenta allora di eliminarli dalla dieta per 15-20 giorni e si vede cosa accade. I cosiddetti trigger variano da paziente a paziente, dunque è difficile fare una casistica, i più segnalati sono: carni grasse e di manzo, arance, latte e latticini, uova e caffè appunto, ma anche in alcuni casi il glutine contenuto nella dieta. A questo proposito, la dieta a eliminazione di elementi che scatenano dolore ha portato un miglioramento soggettivo in 2/3 dei pazienti in uno studio controllato.

A che cosa sono dovuti i benefici degli alimenti?

Esistono alimenti che contengono molecole antinfiammatorie, come nel caso dell’olio di semi di lino che contiene acidi grassi omega3 o dei pomodori, ricchi di licopene, un importante immunomodulatore. Anche gli studi condotti sui singoli supplementi hanno grossi limiti: gruppi di pazienti piccoli, eterogenei, risultati spesso inficiati dall’uso non della singola molecola naturale antinfiammatoria, ma di alimenti o preparati contenenti molti altri costituenti o eccipienti. Segnaliamo comunque l’importanza degli antiossidanti come i polifenoli (contenuti nel cacao, per esempio), le vitamine C ed E e il già citato licopene sebbene anche in questi casi, come ben illustrato dalla vitamina D, i dati siano scarsamente conclusivi.

A cura di Valeria Leone

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