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Intelligente, ma non si applica

27/11/2014

“Il bambino è intelligente, ha capacità, ma non le sfrutta”. Un ritornello già sentito da molti genitori che spesso, di fronte a questa sentenza, trovano come unica soluzione spronare i figli ad una maggiore applicazione, prospettando allettanti ricompense o, viceversa, elencando ‘terribili’ punizioni.
 
Si definisce underachievement (letteralmente: sottorendimento) il rendimento scolastico inferiore a quanto sarebbe previsto in base all’età, istruzione e potenziale intellettivo del bambino. Il sottorendimento non ha una relazione con uno specifico quoziente intellettivo: risulta però particolarmente preoccupante quando si tratta di un bambino con un buon potenziale.
La problematica non va confusa con la ADHD (Sindrome da deficit di attenzione e iperattività),  un disturbo caratterizzato principalmente da mancanza di attenzione, impulsività e ipercinesia; comportamenti tali da rendere difficoltoso il normale sviluppo e adattamento sociale del bambino.

Per quali motivi un bambino “intelligente” non dovrebbe ottenere i risultati sperati?

Per i bambini, il processo di apprendimento che permette di acquisire competenze e lo sviluppo complessivo della propria personalità devono avvenire in modo armonico. Talvolta, però, accade che la conquista di un’abilità o l’interesse per una determinata area, può portare ad un temporanea ‘involuzione’ in un’altra.
 
“Imparare è prima di tutto, un percorso emotivo fatto di relazioni, sentimenti ed esperienze.”, spiega la psicologa Pamela Franchi. L’apprendimento dovrebbe essere un percorso il più possibile gratificante, tale da permettere al bambino di scoprire ed entusiasmarsi per i propri talenti.”
Certe impasse scolastiche sono spesso il segnale di difficoltà relazionali ed emotive, da cui potrebbero derivare l’ansia di dover rispondere con prestazioni adeguate a ciò che il genitore si aspetta, piuttosto che un rifiuto o una scarsa motivazione nei confronti dello studio.
Una conseguente bassa autostima e sentimenti di inadeguatezza rispetto al contesto scolastico, possono far perdere la fiducia nelle proprie capacità e portare il bambino ad un vero e proprio autosabotaggio.
 
“Abbattiamo, allora, il mito della “buona  volontà”: frasi come ‘dovresti impegnarti di più’, ‘sei sempre disattento’, non considerano il fatto che non esiste volontà senza interesse e non esiste interesse separato da un legame emotivo”, afferma la psicologa.

Il genitore deve sempre incoraggiare il proprio bambino?

Il genitore dovrebbe porsi in atteggiamento di reale e partecipe interesse nei confronti della vita scolastica del figlio: essere curioso, non controllante, rappresentare un valido sostegno al quale appoggiarsi per sfogare ansie e paure.
Il genitore dovrebbe ascoltare quello che il proprio bimbo ha da dire, sintonizzare il proprio cuore con il suo, esserci, nel senso di insegnargli ad autodisciplinarsi fin dalla tenera età, non ponendo solo divieti, ma trascorrendo tempo con lui, tempo che sia “libero” da impegni e doveri e dove sia possibile anche annoiarsi un po’, insieme. Tempo in cui il genitore possa comunicare non solo con le parole, ma anche con l’esempio.

 

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