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Tumore alla tiroide, nelle donne sarà il secondo più diffuso entro il 2020

13/05/2015

I suoi casi sono in aumento, come riportano i registri internazionali. Entro il 2020, il tumore alla tiroide sarà il secondo tumore più diffuso nelle donne dopo il quello al seno. Il dato proviene dal dossier “I numeri del cancro in Italia, 2014”, diffuso dall’Aiom, l’Associazione italiana di oncologia medica, e dall’Airtum, l’Associazione italiana registri tumori.

Oggi il tumore alla tiroide è il quarto per diffusione tra le donne e costituisce il 6% di tutte le diagnosi dopo il tumore al seno, al colon retto e al corpo dell’utero. Pur essendo una forma di neoplasia poco comune, con una prevalenza tra l’1 e il 2% ogni 100mila persone, è in misura maggiore un tumore femminile, con una proporzione di 4 a 1 rispetto agli uomini. I suoi tassi di sopravvivenza sono molto elevati e, in media, chi è colpito guarisce in cinque anni dalla diagnosi.

A Roma si è discusso di tumore alla tiroide in un meeting congiunto Itog (International Thyroid Oncology Group) – Eortc (European Organisation for Research and Treatment of Cancer) e nel congresso “Carcinoma della Tiroide Roma 2015 – Nuove frontiere nella diagnosi e terapia”. Nel corso di quest’ultimo appuntamento, è stato presentato l’Atlante del Genoma del Cancro, uno studio recentissimo che ha fornito informazioni basilari verso una medicina individualizzata. Grazie a un’analisi genetica sarà possibile individuare quali pazienti presentano tumori più aggressivi e quali hanno maggiori probabilità di rispondere a determinati trattamenti, definendo le terapie in base al rischio individuale.

 

Grazie alla diagnosi precoce si può intervenire al meglio

Quali sono i casi di tumore alla tiroide più gravi? «Quelli di gran lunga più diffusi e che arrivano ad interessare il chirurgo sono quelli dell’epitelio follicolare che fortunatamente presentano un tasso di guarigione assai vicino al 100%. È ovvio che una diagnosi precoce, ossia il riscontro di un nodulo neoplastico di piccole dimensioni e senza interessamento dei linfonodi, rappresenta la soluzione ideale per intervenire al meglio – spiega il dottor Paolo Ubiali, responsabile dell’Unità Operativa di Chirurgia generale di Humanitas Gavazzeni – . In tal senso il ruolo di Ecografisti dedicati e di Ecografi di ultima generazione è fondamentale. A questo si aggiunga la capacità da parte di gruppi esperti di patologi di arrivare a una diagnosi preoperatoria di certezza o di sospetto di neoplasia maligna esaminando poche cellule prelevate dal nodulo sospetto».

Come si interviene? «La terapia migliore è ancora la chirurgia e nello specifico l’asportazione completa della ghiandola, eventualmente con alcune stazioni linfonodali a seconda dei casi. In pazienti selezionati sulla base della dimensione del tumore e sulle sue caratteristiche biologiche, è possibile eseguire l’asportazione di solo metà della ghiandola. Questi interventi al giorno d’oggi, nelle mani di equipe esperte, che eseguono cioè dai 20 ai 50 casi all’anno come minimo, vengono eseguiti con una piccola incisione e con un’incidenza globale di complicanze dell’1% circa. In caso di ghiandole piccole, è possibile intervenire con tecnica mininvasiva videoassistita, ossia attraverso un’incisione di 2 cm e con l’utilizzo di videocamere ad alta definizione (MIVAT)». 

Le novità più rilevanti sono infine rappresentate «dalla chirurgia robotica, utilizzando uno o due accessi dal cavo ascellare, ma si tratta di una tecnica ancora da validare e per ora eseguita in pochissimi centri», conclude lo specialista.

 

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