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Claudio Longhi: teatro e scienza, un binomio possibile

31/01/2006

Scienza e letteratura, mondi da sempre paralleli ma lontani, quasi inconciliabili. Trovare il punto d’incontro fra teatro e medicina è da qualche anno il lavoro di Claudio Longhi, 39 anni, regista e docente universitario, per molto tempo stretto collaboratore di Luca Ronconi. «Il terreno comune da cui partire – spiega Longhi – è il linguaggio metaforico». Per scoprire un connubio ricco di potenzialità, sia artistiche sia scientifiche.
Circa un anno fa Longhi ha trovato nuovi stimoli per il suo lavoro nell’incontro con il professor Alberto Mantovani, direttore scientifico dell’Istituto Clinico Humanitas e docente di patologia presso l’Università degli Studi di Milano, e con la sua “disponibilità a cogliere nel rapporto con il teatro una possibilità di reciproco arricchimento”, spiega il regista.

Da dove nasce il rapporto fra teatro e scienza?
“Il rapporto fra teatro e scienza è molto ricco e fecondo, tutto da esplorare. Prima di tutto per l’interesse che ha dal punto di vista teatrale. E poi per la diversità della scienza rispetto alla letteratura, che è molto stimolante. Di fatto argomenti scientifici sono stati spesso utilizzati all’interno del teatro. Ma, in passato, l’argomentazione scientifica che era inserita all’interno del testo teatrale era usata da un punto di vista puramente contenutistico, nel senso che venivano utilizzati degli argomenti scientifici dentro situazioni teatrali convenzionali. Per intenderci: due personaggi parlavano tra loro e anziché discutere di amore o di fallimenti finanziari parlavano di argomenti di tipo scientifico. Questa certo è una possibilità, ma la cosa che io ritengo interessante, e su questa linea si è mosso Ronconi con Infinities e con “Biblioetica. Dizionario per l’uso” lo spettacolo che proporrà in occasione delle Olimpiadi invernali di Torino, è invece legata alla possibilità di utilizzare la scienza nella sua specificità. Cerco di assumere il linguaggio scientifico, per capire che tipo di contributo e di arricchimento può dare al linguaggio teatrale”.

La fusione tra scienza e teatro è del tutto nuova anche nel panorama letterario.
“In Italia il rapporto tra la scienza e la letteratura è già stato esplorato. Penso ad esempio al carteggio fra Calvino e Vittorini, a quello che è stato scritto su riviste come Menabò o Officina. Teatralmente invece c’è sempre stata una forte resistenza. Io però ritengo che laddove si cerchi di portare un discorso scientifico all’interno di una gabbia teatrale fatta di personaggi, dialoghi e situazioni convenzionali, si individuino delle nuove possibilità di racconto e di recitazione. Parallelamente ho la sensazione che il rapporto tra scienza e teatro, così come può arricchire il bagaglio di esperienza del teatrante, possa essere di un qualche interesse anche da un punto di vista strettamente scientifico. La specificità del teatro è parlare da quel suo punto di vista ‘altro’ e non ‘attuale’. Il teatro è distante da tutto quello che è la quotidianità in termini di comunicazione: non è uno strumento ‘di massa’, è un mezzo che parla a poche persone, ma nel profondo. Queste caratteristiche della comunicazione teatrale possono portare sul nostro presente un punto di vista critico molto interessante, estremamente utile anche se lo si rapporta alla quotidianità dello scienziato”.

Quale può essere il terreno comune su cui costruire il rapporto teatro-scienza?
“Ritengo che il terreno comune stia sul fronte della metafora. Lo scienziato è costretto a sviluppare un discorso di impianto metaforico, ossia è chiamato a usare nomi vecchi per indicare cose nuove. La ricerca va in questa direzione: lo scienziato trova qualcosa di nuovo, ma ha un bagaglio terminologico fatto di parole che già esistono, da utilizzare per dare nome a queste cose nuove. Si tratta di un meccanismo di arricchimento e di potenziamento della lingua di straordinaria efficacia. Questa torsione che la scienza impone al linguaggio, e che è uno strumento di arricchimento e di crescita del linguaggio stesso, può diventare estremamente produttiva se si rapporta la specificità della scienza a un mezzo come quello del teatro. Ne possono nascere sinergie molto efficaci”.

Quali sono le applicazioni sceniche di questa teoria?
“La prospettiva di azione più interessante è, ed è capitato proprio nella collaborazione con il professor Mantovani, di utilizzare testi come La Peste di Camus, che è letterariamente organizzato e ha al suo interno un impianto e un contenuto medico. Oppure testi scientificamente congegnati, come la relazione di Pasteur ai membri dell’Accademia nazionale, in cui certi passaggi sono il referto medico oggettivo del decorso di casi di rabbia. Abbiamo così da un lato un testo letterario dall’altro un testo strettamente scientifico. In questo senso penso che possa funzionare la bilateralità degli approcci: nell’accostamento di un punto di vista letterario a una ricaduta scientifica e di un punto di vista scientifico a una ricaduta di tipo letterario, teatrale o artistico in senso lato. Un altro esempio è il De Rerum Natura di Lucrezio, testo che abbiamo utilizzato con il professor Mantovani. È un’opera ambigua nella misura in cui come poema didascalico non è né solo testo scientifico né solo testo letterario: è la raffinata combinazione di queste due cose. Di fatto è la trascrizione in termini letterari del fattore scientifico di quel periodo. Ma se lo rapportiamo al contesto storico in cui è nato ci rendiamo conto che è veramente un tentativo che va nella direzione di cui parlavo: combinare un approccio di tipo linguistico, letterario, artistico, e anche teatrale, a un sapere scientifico, con una grande ricchezza di prospettive e una fortissima capacità di scardinamento del linguaggio”.

Il suo lavoro in questo senso come è nato?
“Il punto di partenza del mio lavoro sono state conversazioni e riflessioni nate da un lato dall’incontro con Ronconi e dall’altro con figure come quella del professor Mantovani. Dal mio punto di vista avverto le grandi potenzialità del mezzo con cui lavoro, il teatro. In questa ricerca di forme nuove l’aspetto scientifico per me è determinante. Oggi la nostra vita è enormemente condizionata dalla scienza e dalla tecnica, che rappresentano il nostro universo d’attesa, la sfida del nostro domani. Ritengo che il teatro debba misurarsi con questo orizzonte se vuole rimanere uno specchio dei tempi. E lo può fare soltanto nella misura in cui cerca di assumere la scienza nella sua radicalità, non soltanto discutendo di problemi, ma capendo come è costruito il discorso scientifico”.

E la collaborazione col professor Mantovani da dove parte?
“La collaborazione col professor Mantovani risale all’estate del 2004. Ci siamo conosciuti in occasione di una manifestazione a “Spoleto Scienza”, in cui era previsto un ciclo di letture di carattere immunologico. Io coordinavo la parte registica, il professore curava l’intera iniziativa che prevedeva un accostamento di letture a dimostrazioni divulgative di esperimenti scientifici. Cominciammo a discutere dei testi che potevano essere utilizzati per queste letture e nacque l’idea dell’Ode di Parini sull’innesto del vaiolo e della lettera filosofica di Voltaire sulla vaccinazione anti-vaiolosa. Così è cominciato un dialogo che ha portato all’individuazione di un primo ciclo di letture per Spoleto e di un secondo gruppo presentato poi a Pavia. Quello che mi ha affascinato del professor Mantovani è la sua disponibilità a cogliere nel rapporto con il teatro una possibilità di reciproco arricchimento. Ha avuto l’immediata percezione del fatto che è possibile dialogare alla pari: non considera il teatro come pura forma di ricreazione, come invece fanno molti altri intellettuali”.

A cura della Redazione

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